Jung, l’I-Ching e lo sciamanesimo

ARTE NATURALE E SINCRONICITA’

di Fabio Marinelli

Ci si lega spiritualmente a luoghi, persone o cose che si incontrano sul proprio cammino perché marcano momenti particolari del proprio divenire.

L’Arte Naturale può essere giustamente definita un esempio particolare di applicazione del pensiero junghiano all’arte a partire da due principi fondamentali: il contatto ispiratore con la Natura e l’incontro casuale con le sue forme.
Durante le passeggiate capita d’incontrare forme naturali che sembrano venire incontro al proprio stato d’animo e apportare una risposta simbolica ai propri quesiti.
Questo curioso e affascinante fenomeno di coincidenza significativa tra mondo interiore e mondo esteriore è stato chiamato da Jung “sincronicità”.
Ovviamente, questa non si verifica solamente nella pratica artistica, ma anche, per esempio, in campo clinico. Addirittura l’esistenza di un principio di nessi acausali trova oggi un fecondo parallelo nella concezione non-localista e non-causalista della meccanica quantistica.
Alla base di un tale collegamento ci sarebbero, secondo Jung, gli archetipi dell’inconscio collettivo, tracce mnestiche sovraindividuali e universali che si perdono nelle origini più profonde della psiche.
L’essenza degli archetipi sarebbe quindi psicoide: oltrepasserebbe la sfera psichica (pur manifestandosi in essa) fino a confondersi (in un misterioso “punto zero inesteso”) con quella materiale.
Benché le persone che praticano l’Arte Naturale per lo più non hanno familiarità alcuna né con il concetto junghiano di sincronicità, né con il quantismo, molte appaiono vistosamente “prese” dalla particolarità del rapporto che s’instaura tra loro e quel “più grande di sé” che è la Natura e di cui arrivano a percepirsi parte integrante.
Questa originale caratteristica legata al “sentire” è per lo più assente negli altri ambiti che predicano il contatto con la Natura, come l’ecologia o il naturalismo, dove invece si fa leva su valori razionali, come la preoccupazione per la quantità finita delle risorse terrestri, e dove il sentimento appare confinato in una sorta di oscura nostalgia delle origini.


Nel suo piccolo l’Arte Naturale propone un rimedio alla profonda frattura operata dall’uomo occidentale, fin dai tempi remoti, tra Natura e Cultura. Nell’Antico Testamento vi è un passo della Genesi dove l’uomo, unico essere creato a immagine di Dio, viene esortato a “dominare” e a “soggiogare” gli altri esseri della Terra.
Ora, secondo la critica del Ceronetti, anche se in realtà nella lingua ebraica i verbi radah e khavash avrebbero significati più soft (“premere” e “calcare”) rispetto a quelli privilegiati dai traduttori della Conferenza Episcopale Italiana, tale passo fu decisivo nell’influenzare il pensiero e l’atteggiamento da conquistatore privo di scrupolo dell’uomo occidentale.
Nel secolo scorso, il pensiero freudiano ha, a mio avviso, ulteriormente contribuito ad alimentare la spaltung tra Uomo e Natura, e quindi tra Natura e Cultura, vedendo in quest’ultima il prodotto di un conflitto inconscio, insanabile, sintetizzato nella concezione dell’Edipo, la quale implica appunto il passaggio necessario dell’uomo dalla condizione naturale, o di “immediatezza pulsionale”, a quella socioculturale (registro simbolico).
In questa prospettiva, il sentimento per così dire “olistico” di essere compresi in un tutto che trascende il proprio ego, cui ci si riferiva prima, non trova intendimento se non nel senso di un fantasmatico ritorno alla originaria condizione incestuosa.
Dal nostro punto di vista le cose appaiono diversamente. Anzitutto occorre tenere presente, al fine di capire cosa succede realmente nell’Arte Naturale, che all’escursionismo corrisponde spesso, più a monte, un’esigenza introspettiva. Si potrebbe paragonare la camminata ad una specie di rite d’entrée, inconsapevole, atto ad accrescere la ricettività della persona verso l’inconscio.
Orientandoci verso se stessi, il massimo incontro cui si possa aspirare ad un certo punto del cammino, è l’archetipo del Sé, rispecchiato magari nelle forme della Natura.
E il Sé, come scrive Jung in Aion, “può a volte comportarsi come un’atmosfera che circonda l’Io senza limiti spaziali e temporali ben definiti, donde i fenomeni di sincronicità così spesso associati agli archetipi”. Credo, tra l’altro, che il fascino particolare, numinoso, accordato anticamente a certi luoghi di culto come anche a certi capolavori artistici, possa derivare proprio da un simile rapporto sincronicistico con il mondo esterno. Ci si lega spiritualmente a luoghi, persone o cose che si incontrano sul proprio cammino perché marcano momenti particolari del proprio divenire.
Vorrei citare un paio di esempi atti ad illustrare la pratica dell’Arte Naturale.
Il primo è tratto dalla mia esperienza personale. All’epoca mi interessavo particolarmente al simbolo della Pietra. Leggevo gli autori alchemici e ovviamente anche Jung, accumulando così una certa dose di sapere che tuttavia non mi soddisfaceva completamente.
Decisi di trovare una pietra vera che potesse concretizzare l’immagine ancora oscura della pietra che si era formata a poco a poco in me. Diverse volte mi recai sui monti dell’alto Appennino parmense, senza però trovare nessuna pietra che facesse al caso mio, nonostante ci fosse l’imbarazzo della scelta.
La trovai invece casualmente appoggiata ai miei piedi, sulla collina più vicina a casa, meta delle mie passeggiate più quotidiane, e dopo aver conversato per più di un’ora con l’amico di turno. Era lì, da ore o da sempre, pronta a salvarci dal nostro sterile filosofare.
Era la res simplex, il sasso comune “calpestato nel fango dalle bestie da soma e dai greggi” degli alchimisti e dello Jung di Bollingen che tagliava la legna per il camino.
Successivamente esposi la pietra in una mostra, nel luogo più centrale della sala, attorniata, quasi nascosta, da piante ornamentali e accompagnata dal noto verso scritto dell’alchimista Arnaldo di Villanova: “Qui sta la comune pietra, il cui prezzo è assai modesto. Quanto più è disprezzata dagli stolti, tanto più è amata dai saggi” Il secondo esempio riguarda la storia di un crocifisso raccolto nella pianura padana da un anziano contadino, il quale da più di trent’anni di pratica artistica ha letteralmente riempito la sua dimora di opere naturali di straordinaria bellezza.
Mentre lavorava nei campi, il nostro amico notò una radice mezza nascosta nella terra. Non appena la disseppellì si rese conto che era un crocifisso, ma senza le braccia.
Ci volle un notevole sforzo morale, per una coppia di buoni cristiani, per decidersi ad appendere un crocifisso dal materiale non proprio nobile come la radice, e per giunta senza braccia!
Di tanto in tanto, passando accanto al crocifisso, gli capitava di invocare il Signore scusandosi per l’ardito suo spunto e pregandolo di aiutarlo affinché non lo lasciasse troppo tempo in quel menomato stato.
Finché un giorno inciampò di nuovo su un altro pezzo di radice perfettamente adatto per le braccia del suo crocifisso!
Praticando l’Arte Naturale si viene dunque a formare un rapporto molto particolare tra Uomo e Natura. Dal punto di vista della psicologia del profondo la cosa decisamente più interessante da notare è il decentramento dell’interesse della persona dal suo ego a qualcosa di trascendente in cui si sente compresa. Risulta piuttosto chiaramente come in quell’occasione la Natura venga ad assumere una valenza simbolica assimilabile all’archetipo del Sé.
L’ego dell’artista, infatti, quasi si annulla o per lo meno passa volutamente in secondo piano per lasciare il ruolo di protagonista alla Natura.


Ora, se si pensa alla situazione dell’arte contemporanea, dove basta “essere un nome” per potersi permettere di esporre qualunque cosa, e quindi a tutte le esagerazioni che la caratterizzano (il puntino nero sull’enorme parete bianca, l’ombra del lampadario, la lattina di coca-cola, le macchie di pittura sulle pecore come nel film Le vacanze intelligenti con Sordi…), siamo portati ad interpretare la comparsa dell’Arte Naturale come l’espressione, in campo artistico, di un fenomeno inconscio di compensazione rispetto all’andamento dominante nell’arte moderna, così come nell’intero spirito dell’epoca, essendo l’arte in genere una cassa di risonanza per quest’ultimo.
Lo stesso Jung, in un passo della sua autobiografia, mostra un chiaro penchant verso la pratica di cui stiamo parlando.
Nel periodo di disorientamento che seguì alla rottura con Freud e all’allontanamento dalla teoria psicoanalitica classica, Jung si mise ad ascoltare le sue fantasie per capire dove lo avrebbero portato. Queste lo spinsero a realizzare costruzioni di pietre, come fanno i bambini, raccogliendo sassi dalla riva del lago vicino a casa sua. Era diventato, col tempo, quasi un rituale, ed egli lo praticava con impegno sebbene inizialmente quasi se ne vergognasse. Ad un certo punto le cose rimasero ferme perché egli non riusciva a capire come fare l’altare da ubicare nella chiesetta che stava costruendo.
Finché casualmente s’imbatté in una pietra rossastra dalla forma piramidale: era l’altare!
Episodi di questo genere non capitano di frequente, ma non sono nemmeno rari. Con una certa disposizione d’animo, cioè dopo essere riusciti a relativizzare la distanza tra coscienza e inconscio e quindi anche tra i mondi interiore ed esteriore, la Natura sembra particolarmente disposta a toccarci nell’intimo attraverso lo spettacolo delle sue forme.

Il principio della sincronicità dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung si basa sulle coincidenze.Le coincidenze sono ben spiegate anche dalla:“Profezia di Celestino”

 Prime due illuminazioni:


 1-La massa critica

Nella cultura si sta verificando un nuovo risveglio spirituale provocato da una massa critica di persone che vivono la loro esistenza come una sorta di sviluppo spirituale, un viaggio nel quale tutti noi avanziamo guidati da misteriose coincidenze.


2-Un presente più esteso

Questo risveglio rappresenta il sorgere di una nuova e più completa Visione del mondo, in grado di sostituire il desiderio di sopravvivenza fisica e agiatezza che ha dominato per ben cinquecento anni. Anche se questa necessità di tipo esclusivamente materiale é stata un passo importante nello sviluppo umano, il risveglio alle coincidenze della vita ci porta a scoprire il vero scopo dell’esistenza umana su questo pianeta, oltre alla vera natura del nostro universo.

 

 

Jung ha fornito una chiave d’interpretazione dell’I-Ching più orientata verso la comprensione del punto di vista del testo stesso e della mentalità orientale che lo ha prodotto, introducendo il concetto di sincronicità in opposizione a quello occidentale di accidentalità degli eventi.Carl Gustav Jung nato a Kesswill il 26 luglio 1875, è stato uno dei fondatori della psicologia del profondo. Si occupò di scoprire il senso dell’I-Ching per favorire la sua diffusione in Europa.Le impressioni personali di Jung sul principio della sincronicità: ”è particolarmente importante la coincidenza degli eventi nello spazio e nel tempo, scorgendovi qualche cosa di più che il solo caso, e cioè una peculiare interdipendenza degli eventi oggettivi tra loro, come pure tra essi e le condizioni psichiche dell’osservatore o degli osservatori. Nell’I-Ching il solo criterio di validità della sincronicità è l’opinione dell’osservatore. Quindi non è altro che un’esortazione a esaminare accuratamente il proprio carattere, le proprie intenzioni e le proprie motivazioni.”Inoltre, per Jung ”Il metodo con cui si dovrebbe arrivare a questa conoscenza si presta ad abusi d’ogni genere, e non è fatto per gli pseudointellettuali e i razionalisti. E’ adatto solo per persone ponderate e riflessive che si soffermano a pensare su ciò che fanno e sulle esperienze che vivono, seguendo un’inclinazione…”

Come nota Jung ”Persino l’occhio più prevenuto è chiaro che il Libro dei mutamenti rappresenta una sola lunga esortazione a esaminare con cura il proprio carattere, il proprio comportamento e le proprie motivazioni.”

Jung e l’I – Ching: Archetipi e Processo d’individuazione

Di Lino Carriero

E’ inevitabile! Si parla del Libro dei Mutamenti e sempre si finisce per parlare di Jung.
Eppure l’I Ching non ne avrebbe bisogno, visto che gode di ottima longevità. Ma è grazie a Jung se l’oracolo può esibire una seconda giovinezza passando dal mondo delle cosiddette superstizioni a quello civilissimo della ragione occidentale. Non varrebbe la pena dilungarsi troppo su Jung nell’esclusiva relazione con l’ I Ching, pena un certo snaturamento della natura spirituale di questo come degli altri oracoli. Eppure è indubbio che tutti noi, adepti dei Mutamenti, abbiamo un debito con lo psicanalista. Anzi molti debiti, primo fra tutti l’aver deviato il corso della psicoanalisi verso la china troppo scientista che pretenderebbero i freudiani e non solo; così come aver insegnato agli europei a non porre la propria civiltà al di sopra delle altre, poiché la madre di tutte le civiltà è inconsciamente collettiva.

Il Libro dei Mutamenti è un libro affascinante e misterioso come ben pochi pervenutici dall’antichità. Per chi ha fede il testo sarebbe animato da uno spirito, lo shen. Tuttavia coloro che in Occidente sono stati chiamati dal destino a confrontarsi con il Libro dei Mutamenti, oltre a se stessi e al Libro, dichiarano di sperimentare, con il continuo uso, l’effettiva presenza di una terza entità definibile come paranormale: lo spirito sopracitato. Molti che abitualmente lo consultano possono confermare le stesse parole tratte dal Ta Chuan: “I Mutamenti sono un libro dal quale non si può stare lontani”. Non pensiate che queste siano affermazioni frutto di bizzarre suggestioni dovute ad un delirio collettivo, anche lo psicoanalista Jung giunse alla stessa nostra conclusione. Si potrebbe dire allora che basterebbe evitare di farsi coinvolgere da un approccio al testo di natura fantasiosa e limitarsi alla razionalità; ciò però non è possibile in quanto nel passaggio dalla teoria all’applicazione pratica il testo si configura come un perfetto oracolo. Esso come tale ci impone di buttare a mare i nostri pregiudizi occidentali e di sospendere il nostro modo di pensare esclusivamente causalistico. Solo con queste premesse l’utilizzo dell’I Ching acquista il senso e la logica che l’ha reso un best-seller in tutto il mondo, come autentica guida spirituale (similmente alla lettura qabalistica del Vecchio Testamento in cui l’albero delle Sephiroth è paragonabile all’esagramma dell’I Ching).“Il senso (Tao) si oscura se si considerano soltanto piccoli settori finiti dell’esistenza”Nella prefazione al testo Jung afferma che: “Questo modo di procedere, pur rientrando nell’ambito della filosofia taoista, può sembrare a noi oltremodo bizzarro. Ma la stranezza delle allucinazioni dei dementi o delle superstizioni primitive non mi ha mai sgomentato. Ho sempre tentato di rimanere imparziale e curioso. Perché non tentare un dialogo con un antico libro che pretende di essere animato?”Dialogo è la parola che si impone: dialogo interculturale, dialogo fra filosofia e religione, tra scienza ed esperienza, tra l’uomo e l’anima; aprire un dialogo con l’oracolo del Libro dei Mutamenti equivale ad approfondire il proprio dialogo interiore. Un dialogo non limitato al benessere del raggiungimento di uno scopo (i piccoli settori finiti dell’esistenza) bensì alla conoscenza di sé nel personale iter esistenziale inserito nel vasto contesto delle trasformazioni operate dalle leggi che regolano l’armonica struttura dell’universo. Un altrettanto famoso oracolo, quello di Delfi, similmente recita: Conosci te stesso e conoscerai la saggezza degli dei e dell’universo. Il passaggio dalla sfera delle applicazioni psicologiche, attraverso l’analisi del complesso gioco di “proiezioni simboliche” contenute negli esagrammi, fino a giungere alla sfera spirituale, la conoscenza delle leggi che regolano l’Unità nella dinamica degli opposti: la Coniunctio oppositorum junghiana, è concepibile solo a patto che quel dialogo personale venga sacralizzato. Sacralizzato vuol dire proiettarlo “oltre” gli angusti confini dell’Io.“Lo stato in cui Io e non-Io non formano più alcun contrasto si chiama perno del Tao (senso)” afferma Chuang Tze. Animato – come afferma Jung – non vuol dire solo che è vivo, ma anche che è vivo grazie all’attivazione di quell’entità, superiore alla psiche, che comunemente chiamiamo anima. Solo in questa prospettiva l’interrogante, ponendosi nel mezzo delle dinamiche di Cielo e Terra, yin e yang, può coglierne gli effetti su di sé: i mutamenti.

I Mutamenti sono un libro vasto e grande, nel quale ogni cosa è contenuta compiutamente: In esso è il Senso del Cielo, in esso è il Senso della Terra e in esso è il Senso dell’uomo. Esso riunisce queste tre potenze fondamentali (Shuo Kua 375).


Nulla può escludere, come accadde a Jung, di considerare le dinamiche di Cielo e Terra nell’ottica della teoria della sincronicità di Tempo e Spazio, tanto cara allo psicoanalista.

Seppur animato l’I Ching non ama far sfoggio di sé, il Libro appare nella nostra esistenza quando, in nome di una nostra necessità evolutiva, il suo spirito si è sentito chiamato o attratto dal nostro spirito interiore. A ben vedere l’I Ching non pone selezioni di sorta, men che mai di tipo culturale. Chiunque ben animato vi può accedere. Che ne faccia un uso psicologico, o spirituale o semplicemente per interesse filosofico non ha importanza, quel che conta è che sempre si creerà una perfetta sintonia sulle finalità dell’uso.

Dopo dialogo, “attrazione” è la seconda parola chiave che animò la ricerca junghiana.

Al di là delle mode e al di là di certi ambienti sempre attenti alle tematiche esoteriche, alcune domande sorgono spontanee: perché mai noi, così come Jung (uomo di cultura occidentale) dovremmo sentire la necessità di essere attratti dal dialogo con un testo considerato dai più alla stregua di una superstizione? E perché Jung fu attratto da questo testo ermetico e misteriosissimo per la sua epoca? Che tipo di risposte si aspettava (e ottenne) per lanciarsi in una ricerca così complessa tanto da allargare l’orizzonte su altri due testi complicati: Il Mistero del Fiore d’ oro e Il libro tibetano dei morti? Cosa accomunava queste tre opere nella mente di Jung?

Leggendo anche gli altri due testi, ci si accorge subito che si tratta dei tre pilastri fondamentali per comprendere gli strumenti psicodinamici, teorici e pratici, della psicologia sino-tibetana e di come l’Oriente abbia continuamente dato risalto a quel processo di sviluppo psicologico, e insieme di crescita spirituale, che lo psicoanalista vuol far corrispondere alla sua teoria del Processo d’individuazione. Con l’aiuto del sinologo e traduttore R. Wilhelm, Jung intuì che nell’I Ching era contenuto l’intero impianto filosofico che i cinesi avevano edificato intorno alla concezione del mondo visto come macrocosmo, e dell’uomo come microcosmo, quindi della relazione fisica e psichica allo stesso tempo che lega queste dimensioni, attraverso l’esperienza della Sincronicità, visto che per i cinesi l’universo sarebbe governato da una mente cibernetica (secondo l’attuale definizione cui si è giunti in Occidente con le teorie di G. Bateson) attraverso reti energetiche integrate psico-fisiche. Quale strumento migliore quindi dell’oracolo dell’I Ching per studiare sul campo, a partire da se stessi, la teoria della Sincronicità deve essersi chiesto Jung?

Nel Mistero del fiore d’oro egli deve aver ravvisato le dinamiche psico-fisiologiche che si generano nella pratica di individuazione dello yoga cinese detto Qi Gong, attraverso gli esercizi psico-fisiologici di questa tecnica, detti della Piccola e Grande Rotazione Celeste. Modificazioni di cui solo ora con l’utilizzo della risonanza magnetica ci sono le prove scientifiche. Se il libro dell’I Ching è il classico dei Mutamenti, nel Libro tibetano dei morti vengono descritte le modalità di conduzione delle trasformazioni dei propri stati di coscienza, a partire dal momento della morte che coinvolge l’essere umano nella rete delle energie cosmiche, coinvolgendo le dinamiche psicologiche del defunto (in particolare i meccanismi di difesa operanti contro il cambiamento) frutto del desiderio di ritornare, regredire, alla passata condizione esistenziale. Paura della morte intesa come paura del cambiamento, esattamente simile ai meccanismi di difesa tipici di ogni nostra trasformazione psicologica durante l’evoluzione della personalità, così come scoperti dallo stesso Freud. In realtà Jung concentrò gli sforzi principalmente sull’I Ching, in quanto della pratica del Qi Gong contenuta nel Mistero del fiore d’oro, all’epoca non se ne sapeva molto in Europa, tanto da confonderla con lo Yoga indiano, di cui Jung aveva avuto diretta conoscenza in India, ma di cui i gesuiti, che erano già stati in Cina, conoscevano e utilizzarono i principi per i loro esercizi spirituali.

Processo d’individuazione e archetipi

Oltre alla Sincronicità, come vedremo in seguito, crediamo che Jung sia rimasto affascinato dall’enorme interesse dei cinesi per gli archetipi, casualmente concepiti nella stessa ottica junghiana, intesi come accumulatori di energia psichica, rappresentati negli esagrammi (simboli composti da 6 linee intere o spezzate tipici dell’I Ching) a partire dalle immagini naturalistiche degli 8 trigrammi (simboli composti da 3 linee) e dei 5 elementi contenuti nelle due ruote del re Wen e di Fu Xi. Straordinaria coincidenza con la stessa teoria dell’Inconscio Collettivo, tanto straordinaria quanto è collettiva la stessa simile produzione archetipica tra l’Alchimia cinese e quella europea medioevale, tra quella greca del Tutto scorre di Eraclito e quella simbolica del percorso di ricerca di Iside con Osiride, dell’antico Egitto (vedi Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche,1947-1954). Purtroppo in quegli anni non era molto conosciuta in Europa la medicina cinese così come descritta nel testo classico, Il canone dell’imperatore Giallo, Huangdi Neijing Lingshu, dove nella seconda parte: il Lingshu, all’ottavo capitolo, Ben Shen, viene trattata la parte concernente la psicologia e il ruolo delle emozioni. Se Jung infatti l’avesse letto, avrebbe scoperto il ruolo energetico degli archetipi nella mente umana e in relazione alla mente universale ugualmente agita dagli stessi archetipi in una sorta di inconscio collettivo universale. Leggi che si intuiscono ugualmente anche dall’I Ching stesso, come il testo recita nello Shuo Kua (e che porremmo a confronto con la stessa definizione junghiana di archetipo):

“Quando Pao Hsi governava il mondo nella più remota antichità, egli innalzò lo sguardo e contemplò le immagini nel cielo, abbassò lo sguardo e contemplò gli avvenimenti sulla terra. Egli contemplò i disegni degli uccelli e degli animali e l’adattamento ai luoghi. Direttamente egli partì da se stesso, indirettamente egli partì dalle cose. Così inventò gli otto trigrammi per entrare in comunicazione con le virtù degli dei luminosi e per mettere ordine nelle condizioni di tutti gli esseri. (354)

Nel II capitolo viene spiegato come tutte le conquiste della civiltà siano nate come riproduzioni di ideali immagini primigenie. Ogni invenzione nasce come immagine nella mente dell’inventore prima di comparire quale cosa compiuta, poi come strumento. Dai 64 esagrammi si possono far derivare le invenzioni umane che hanno condotto allo sviluppo della civiltà. Il processo d’individuazione junghiano altro non è che una continua e personale rielaborazione evoluta del principio di piacere in principio di realtà. Come afferma Freud: sublimare il piacere, sospendendone l’immediata soddisfazione, per convogliarlo in creatività del pensiero, immaginando così lo sviluppo successivo di scoperte maggiormente soddisfacenti: la nascita della civiltà ordinata dalla regole e dalla morale. Nella filosofia indiana ciò corrisponde al passaggio dal secondo al sesto chakra e nell’I Ching dalla seconda alla quinta linea dell’esagramma, la linea del principe. Il Pai Hu T’ung descrive lo stato primordiale della società umana:

Nei tempi primitivi non esisteva ancora nessun ordinamento morale e sociale. Gli uomini conoscevano soltanto la propria madre, non il loro padre. Affamati, ricercavano cibo; sazi, buttavano via i resti… Allora venne Fu Hsi e guardò in alto e contemplò le immagini nel cielo, guardò in basso e contemplò gli eventi sulla terra… Egli tracciò gli otto segni [trigrammi] per governare il mondo. (355)

Per questo motivo Lao Tze afferma che: Il Tao veste e nutre tutti gli esseri e non si atteggia a loro signore.

Proviamo a fare un confronto con la stessa definizione di Jung:

É affermazione unanime di tutti i platonici che, come nel mondo degli archetipi tutto è in tutto, così anche in questo mondo corporeo tutto è in tutto, ma in maniera diversa a seconda della natura degli esseri o delle cose che accolgono. Così pure gli elementi non sono solo in questo mondo inferiore, ma anche in cielo, nelle stelle, nei demoni, negli angeli e infine (anche) nel creatore e archetipo del tutto.

Cos’altro deve essergli sembrata la tavola dei 64 esagrammi dell’I Ching se non una guida logica alle coincidenze significative che determinano i mutamenti che rendono l’uomo un essere individuale (principium individuationis)?

 

Sempre da Jung ci proviene una pietra miliare della nostra cultura psicologica occidentale. Libido: simboli di trasformazione, un testo indispensabile per un occidentale affinché meglio possa comprendere lo spirito mercuriale contenuto nella libido, Qi o della Kundalini, che sempre lega le opposte dimensioni di Cielo e Terra, il tempo e lo spazio degli accadimenti sincronici. L’uomo, la creatura, è sempre al centro vivificata dallo spirito come avvolto da un serpente di Luce, il serpente della vera conoscenza degli opposti archetipi: del Bene e del Male, propizio e sciagura.

La Sincronicità e l’Alchimia: Come in alto così in basso
Un’altra intuizione di Jung riguardo alle pratiche psicofisiche taoiste fu di aver constatato che l’I Ching rappresentava la possibilità concreta di poter applicare all’essere umano gli stessi procedimenti della scomparsa Alchimia europea come trasmutazione psicologica. Jung non era interessato alla diffusione pratica dello yoga indiano o cinese che considerava culturalmente inutili, impossibili e fuorvianti per gli occidentali, per cui, animato soltanto da scopi intellettuali, cercava unicamente il confronto possibile con approcci culturali lontani ma riconducibili alle sue stesse teorie e al suo modo intuitivo di fare ricerca in campi come quello psicologico dove il metodo scientifico non può essere esaustivo di tutto l’orizzonte psichico umano.
Proponendo con successo in Europa l’interesse per le filosofie orientali, Jung compì quell’operazione di re-suscitare con linfa ancora vitale (vedi: il Crogiuolo, nella prefazione all’I Ching), l’interesse per l’alchimia europea medioevale in quella parte almeno dove occulto è sinonimo di inconscio, che come sappiamo costituisce le fondamenta esoteriche della psicologia analitica junghiana.
La scienza è lo strumento dello spirito occidentale, e con essa si possono aprire più porte che con le sole mani. L’Oriente ci apre invece una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda ed elevata: la comprensione attraverso la vita. L’imitazione occidentale si riduce ad una tragica incomprensione della psicologia orientale ed è inoltre sempre così sterile… Non di questo si deve trattare, non di imitare in modo disorganico un mondo straniero, ma piuttosto di riedificare nella sede sua propria la cultura occidentale e condurvi il vero europeo, nella sua quotidianità occidentale, con i suoi problemi coniugali, con le sue nevrosi, i vaneggiamenti sociali e politici, e con le sue sbigottite incertezze riguardo a una visione del mondo. Per questo è così penoso vedere l’europeo rinunciare a sé stesso e imitare in modo affettato l’Oriente. Il mero intelletto non è in grado di comprendere l’importanza pratica che per noi potrebbero assumere le idee orientali e perciò riesce (soltanto) a classificarle tra le curiosità filosofiche ed etnologiche. L’incomprensione giunge a un punto tale che persino dotti sinologi non hanno inteso l’applicazione pratica dello I Ching (Yi Jing) e considerano questo testo null’altro che una raccolta di astruse formule magiche.
Per quanto Jung possa essere considerato un padre della New Age, si può affermare che egli fu un precursore nel modo di fare ricerca a tutto campo, interdisciplinariamente, e questo modo di pensare lo riprese certamente dal fare ricerca come concepito dagli alchimisti, creando un legame diretto tra quel virtute et conoscenza di dantesca memoria.Ecco alcune risposte al motivo di tanto interesse per il pensiero cinese direttamente dal Saggio sulla Sincronicità come principio di nessi acausali, edito da Jung nel 1952.
Per noi i particolari contano sempre in sé e per sé; per lo spirito orientale essi integrano sempre un quadro generale. Ora in questa totalità sono comprese, come lo erano già nella psicologia primitiva o nella nostra psicologia medioevale prescientifica (e tale lo è ancora in parte), cose il cui rapporto con le altre cose non può ancora essere inteso che come casuale, cioè come coincidenza la cui significatività sembra arbitraria. In questo quadro rientra la teoria medioevale della filosofia naturale sulla Correspondentia, in particolare la concezione già propria degli antichi della simpatia di tutte le cose. Ippocrate dice: “Un unico confluire, un unico cospirare (conflatio), sentendo tutto insieme. Tutto in rapporto alla totalità, ma in rapporto alla parte le parti (presenti) in ogni parte con intenzione all’effetto. Il grande principio va fino alla parte estrema, dalla parte estrema al grande principio: un’unica natura, l’Essere e il Non-Essere. Ma il principio universale si trova anche nella più piccola parte, la quale perciò coincide con il tutto”.
Sempre riguardo all’incessante bisogno di ricercare leggi supreme alla base della comunicazione all’interno dell’universo, da cui ricavare leggi sul principio di sincronicità, egli afferma che: Fino ad oggi non sappiamo che questo: deve esistere un principio che sta alla base di tutti i fenomeni del genere, e che potrebbe spiegarli. Sia la concezione primitiva sia la concezione antica e medioevale della natura presuppongono l’esistenza, accanto alla casusalità, di un simile principio. Fino a Leibniz la causalità non è né unica né predominante. Nel corso del diciottesimo secolo essa è poi diventata il principio esclusivo delle scienze naturali. Con l’ascesa delle scienze naturali nel diciannovesimo secolo la correspondentia è tuttavia scomparsa dal quadro, e di conseguenza il mondo magico di epoche precedenti, sembrò definitivamente tramontato, finché verso la fine del secolo i fondatori della Society for Psychical Research tornarono a mettere sul tavolo il problema in via indiretta, cioè tramite l’indagine del cosiddetto fenomeno telepatico. I cinesi però fecero quel qualcosa in più che destò l’interesse di Jung, poiché egli stesso afferma che: É ovvio che a livello primitivo la sincronicità sembri non un concetto a sé, ma una causalità magica. Questa rappresenta la forma primitiva del nostro classico concetto di causalità, mentre l’evoluzione della filosofia cinese ha sviluppato dalla significanza del magico il concetto di Tao, della coincidenza significativa, ma non una scienza naturale fondata sulla causalità.

Prendendo spunto dalla citata Bussola d’oro, è doveroso aggiungere che dopo aver iniziato con Ippocrate, Jung nel suo saggio, ci descrive minuziosamente lo sviluppo sia del concetto di Legge Universale, la quale per simpatia sostiene tutte le leggi del particolare, che di scienza del “generale” da cui dipendono le scienze specialistiche. Egli ci ripropone anche tutti i sistemi dell’Ars combinatoria, costituiti da ruote e macchine, ideate nel medioevo da Raimondo Lullo, fino all’Horologium vitae di Leibniz, e che corrispondono nei principi alle due ruote taoiste del Re Wen e di Fu Xi. L’obiettivo dell’arte combinatoria era il corretto uso dell’intelligenza attraverso apparecchi logici, vere e proprie macchine inferenziali capaci di dimostrare la verità o la falsità di un’asserzione.
L’intelligenza – affermava Lullo – chiede imperiosamente una scienza generale applicabile a tutte le conoscenze, ed è quasi inevitabile vedere in lui un precursore delle moderne ricerche relative all’intelligenza artificiale, anche perché il filosofo non si accontentò di indagini teoriche, ma passò decisamente alla costruzione concreta delle macchine combinatorie. La sua idea era quella di disporre su un circolo gli elementi fondamentali, simboli, che formano una nozione (per esempio, relativamente all’idea di Dio: bontà, grandezza, onnipotenza e così via).
Queste caselle concettuali vanno poi messe in relazione fra loro da particolari schemi grafici che si possono disegnare al centro delle ruote. Poiché ogni ragionamento è una forma di collegamento fra nozioni, diventa così possibile una rappresentazione della conoscenza e dei suoi procedimenti secondo moduli geometrici.


Nella terminologia moderna il lullismo consiste in una descrizione topologica delle operazioni mentali, in cui cioè i rapporti tra le nozioni che formano il discorso sono espresse da collegamenti di tipo spaziale. Questi diagrammi dovrebbero permettere di scoprire le leggi del pensiero associativo; Lullo dimostrò che nelle ruote dedicate a problemi naturali prevale sempre lo schema del quadrato degli opposti: terra e acqua opposte ad aria e fuoco, primavera ed estate opposte ad autunno e inverno, e così via.
Moltiplicando il numero delle ruote concettuali e ponendole in rotazione attorno al centro, diventava possibile creare nuove ed inusitate associazioni mentali. In questo modo la Ars demostrandi (capacità di dimostrare ) perseguita da Lullo tendeva a trasformarsi in Ars inveniendi (possibilità di far scoperte). Ma R. Lullo (1232-1315) è preceduto nella descrizione di Jung da Filone ( 25 a.C.- 42 d.C. ) del quale cita: Avendo Dio voluto far accordare sotto di sé inizio e fine del divenuto, così che le cose siano legate da necessità ad amicizia, ha fatto come inizio il cielo, ma come fine ha fatto l’uomo; il cielo lo creò come la più perfetta delle cose percepibili imperiture, l’uomo come il migliore degli esseri perituri nati dalla terra, come – se dobbiamo dire la verità – un piccolo cielo che reca in sé le immagini delle molte nature simili alle stelle… Ora poiché ciò che é perituro e ciò che è imperituro sono contrapposti, egli ha dato a entrambi, al principio e alla fine, la più splendida forma: all’inizio come abbiamo detto quella del cielo, alla fine quella dell’ uomo.
Sempre continuando sulla relazione tra macro e micro-dimensioni, Jung cita anche Teofrasto (371-288 a. C.) e Plotino: Secondo Teofrasto ciò che è sovrasensoriale e ciò che è sensoriale sono legati insieme da un legame di comunanza. Questo legame non può essere la matematica, ma presumibilmente solo la divinità. Analogamente le anime individuali che in Plotino nascono da una sola anima universale sono simpatiche o antipatiche in rapporto reciproco, e la distanza non ha importanza alcuna. L’excursus junghiano della storia (e utilità) della casualità, continua con citazioni da Pico della Mirandola: In primo luogo c’è nelle cose la unità, grazie alla quale ogni cosa è una con se stessa, consiste di sé stessa ed è in rapporto con sé stessa. In secondo luogo e grazie ad essa (unità) che una creatura viene unita alle altre e infine tutte le parti del mondo formano un solo mondo.
Per rafforzare il concetto, e anche perché citati in altri testi da Jung, riportiamo anche Nicola Cusano, Giordano Bruno e Marsilio Ficino.
Fu Cusano che per primo parlò della Coincidentia oppositorum a proposito di eventi che secondo la causalità appaiono come insanabilmente contraddittori per la mente umana a meno di non ricorrere ad un altro modo di pensare, tipo per congetture e analogie geometriche, come nel caso dell’infinità di Dio. Per esempio la retta e il cerchio sono figure diverse (finite), ma se si estende un cerchio all’infinito, diventa impossibile distinguerlo da una retta.
Marsilio Ficino ripropose inconsapevolmente il concetto taoista di equidistanza dell’uomo, microcosmo, sia dal cielo superiore che dalla terra inferiore, sintetizzando il concetto di uomo copula mundi: esso è il centro di simmetria fra il mondo superiore e inferiore.
Il termine medio in cui è posto l’uomo per Ficino, che corrisponde alla linea di mezzo dei trigrammi dell’I-Ching, fa sì che l’individuo, al pari della concezione taoista, possa liberamente tendere verso l’alto della spirito o verso il basso della materia. Di analogo significato è l’uomo camaleonte proposto da Pico della Mirandola. L’effetto continuo del panpsichismo sull’individuo i cinesi lo rilevano sul corpo come energia sostanziale, che scorre nei meridiani, e sulla mente (diremo noi occidentali ) sotto forma di immagini archetipiche; questo concetto verrà affrontato nei successivi articoli sulla relazione energetica tra: floriterapia secondo Kramer e meridiani dell’agopuntura, e chakraterapia indiana.

Dopo aver affrontato questo lungo percorso sull’evoluzione del pensiero sincronistico, e avendolo paragonato con quello cinese, e avendo constatato quanto Jung lo considerasse sufficientemente già compiuto prima di quello europeo, ci siamo chiesti quale poteva esser stato per Jung l’utilizzo pratico dell’I Ching, e a questo punto non solo teorico.
Tutto ciò che sappiamo, e che abbiamo ricavato direttamente dal saggio sulla sincronicità e dalla prefazione al testo di Wilhelm, ci dice che Jung aveva un duplice rapporto con il testo. Il primo, quello del ricercatore che avendo trovato una miniera di un metallo sconosciuto si apprestava allo sfruttamento tanto atteso, costituito dalla dimostrazione pratica e sperimentale di un evento sincronistico, quale è quello che avviene durante l’operazione oracolare, in cui si ha la rivelazione, nel qui ed ora, della coincidenza dei due fattori psichico e fisico.
Sappiamo dalla Prefazione e da Sogni, ricordi e riflessioni che Jung sapeva interrogare e interpretare l’I Ching come un esperto taoista, ma ovviamente il suo intento era di trovare il modo di compiere un esperimento dimostrabile scientificamente e non solo a se stesso. Pur tuttavia osservava Jung, questi esperimenti, avevano conferito al fenomeno della sincronicità una base almeno statistica, ma non sufficiente, vista l’impossibilità di controllare in laboratorio le variabili di un fenomeno, dalle variabili appunto infinite, poiché fuori dalla causalità; che fare allora?
Questo fatto mi ha indotto a chiedermi se non esiste un metodo che da un lato provi il fenomeno della sincronicità e dall’altro permetta di riconoscere contenuti psichici in maniera che si possano almeno ricavare determinati punti fermi sulla natura del fattore psichico coinvolto. Mi sono domandato se non esiste un metodo che renda possibili risultati misurabili o numerabili, e che al tempo stesso ci sia modo di penetrare nei retroscena psichici della sincronicità. Partendo sempre dalla totalità, il metodo dell’ I Ching sembrava essere il migliore disponibile.

“L’uomo continua la creazione del mondo in quanto restituisce al cosmo in idee ciò che a lui viene offerto in fenomeni. Grazie a questo suo ruolo l’uomo è cittadino dei due mondi”. (Goethe)

-Bibliografia junghiana: Libido: simboli di trasformazione. Sogni, ricordi e riflessioni. Opere n.:11, 13 e 14.
-Elisa Rossi: Shen, Casa editrice Ambrosiana, 2002
-E. Rochat De La Vallèe: Ligshu, la psiche nella tradizione cinese, Jaca Book
-Giulia Boschi: La radice e i fiori, Erga Edizioni
I testi degli articoli sono adattamenti dell’autore dalla tesi di laurea in Psicologia IL TAO E LA PSICOLOGIA, Teorie comparate sul processo d’individuazione: C.G.Jung e l’I Ching taoista. Lino Carriero

Lino Carriero, nato nel 1962, vive e lavora a Roma.
Con il termine di naturosofo: filosofo della natura, ama racchiudere le sue esperienze sulla Naturopata e floriterapia, Psicologia e Consulenza filosofica con l’I Ching. Autore del romanzo L’ATTRAVERSAMENTO DELLA GRANDE ACQUA, Ed.Libreria Croce, Roma, 2009, primo capitolo della trilogia LA FILOSOFIA DELL’ORACOLO. Curatore della rubrica: L’oracolo dell’isola, nel gruppo FB Passeggiata all’isola che non c’è, dove interpreta on-line i sogni con l’I Ching e la Chakraterapia.

Brani dalla prefazione a I Ching di C.G. Jung

[…]
Tra gli studiosi occidentali si è diffusa la tendenza a liquidare quest’opera come una raccolta di “formule magiche”, per alcuni troppo astrusa per essere intelligibile, per altri priva di qualsiasi valore. Per più di trent’anni mi sono interessato a questa tecnica oracolare, o metodo di esplorazione dell’inconscio, perchè a me sembrava di non comune importanza. Non è molto facile trovare il giusto accesso a questo monumento del pensiero cinese, così infinitamente diverso dai nostri modi di pensare.
Per capire in generale di che cosa tratti un simile libro è imperativo buttare a mare certi pregiudizi della mentalità occidentale. E’ curioso che un popolo dotato e intelligente come i cinesi non abbia mai prodotto ciò che noi chiamiamo “scienza”. La nostra “scienza”, però, si basa sul principio di causalità, e la causalità è considerata verità assiomatica. Ma un grande cambiamento è ormai avviato. Gli assiomi della causalità sono scossi nelle loro fondamenta: ora sappiamo che quello che noi chiamiamo leggi di natura non sono altro che verità statistiche, costrette perciò ad ammettere delle eccezioni. Non abbiamo tenuto abbastanza conto del fatto che, per dimostrare la validità invariabile delle leggi di natura, abbiamo bisogno del laboratorio con le sue incisive restrizioni. Se lasciamo che la natura faccia da sè, vediamo un quadro ben differente: ogni processo subisce interferenze parziali o totali ad opera del caso, e in misura tale che in circostanze naturali un corso di eventi che si conformi in tutto e per tutto a leggi specifiche rappresenta quasi un’eccezione.
La mentalità cinese, quale io la vedo all’opera nell’I Ching, sembra preoccuparsi esclusivamente dell’aspetto accidentale degli eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra essere la cosa della quale questa peculiare mentalità s’interessa principalmente, mentre ciò che noi adoriamo come causalità passa quasi inosservato. Dobbiamo ammettere che qualche cosa si possa dire in favore dell’immensa importanza del caso. Una quantità incalcolabile di sforzi umani è rivolta a combattere e limitare i danni o i rischi rappresentati dal caso. Spesso le considerazioni teoriche su causa ed effetto appaiono pallide e polverose a paragone degli effetti pratici del caso. Va benissimo dire che il cristallo di quarzo è un prisma esagonale; è proprio vero – fintanto che si immagina un cristallo ideale. Ma in natura non si trovano due cristalli esattamente uguali, benchè tutti siano palesemente esagonali. La forma reale, tuttavia, sembra sollecitare il saggio cinese ben più di quella ideale. La confusa congerie di leggi naturali che costituisce la realtà empirica contiene per lui un significato ben più importante che non una spiegazione causale di eventi che poi devono di regola essere separati l’uno dall’altro prima che si possa discuterne in maniera appropriata.
Il modo in cui l’I Ching tende a considerare la realtà implica un giudizio poco favorevole per i nostri procedimenti causalistici. L’istante che sta sotto osservazione appare all’antica visione cinese più come un colpo di fortuna che come il risultato ben definito di catene causali concorrenti. Ciò che interessa sembra essere la configurazione che gli eventi accidentali assumono al momento dell’osservazione, e niente affatto le ragioni ipotetiche che apparentemente rendono conto della coincidenza. Mentre la mentalità occidentale pone ogni cura nel vagliare, pesare, scegliere, classificare, isolare, l’immagine che il cinese si fa del momento racchiude ogni cosa fino al più minuto e assurdo particolare, perchè l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti. Accade così che quando si gettano le tre monete, questi dettagli casuali entrano nel quadro dell’istante d’osservazione formandone una parte: una parte insignificante per noi, eppure colma di significato per la mentalità cinese. Per noi sarebbe un’affermazione banale e quasi senza senso (almeno in apparenza) dire che qualunque cosa avvenga in un dato momento possiede inevitabilmente la qualità peculiare di quel momento. Questo non è un argomento astratto, anzi è un argomento assai pratico. Vi sono certi esperti che all’aspetto, gusto e comportamento di un vino sanno dedurre il sito della sua vigna e il suo anno di origine. Vi sono antiquari ai quali basta un’occhiata per indicare con un’esattezza quasi stregonesca l’epoca, la provenienza e l’autore di un oggetto d’arte o di un mobile. Di fronte a simili fatti bisogna ammettere che i momenti possono lasciare tracce di lunga durata.
In altre parole, l’inventore dell’I Ching, chiunque sia stato, era convinto che l’esagramma elaborato in un dato momento coincideva con questo momento anche nella qualità, e non soltanto nel tempo. Per lui l’esagramma era l’esponente del momento in cui si realizzava – più ancora di quanto potessero esserlo l’ora segnata dall’orologio o i dati risultanti dal calendario – in quanto l’esagramma era concepito come un indicatore della situazione essenziale prevalente al momento della sua origine.
Questa teoria implica un certo strano principio che io ho denominato sincronicità, un concetto che formula un punto di vista diametralmente opposto a quello della causalità. Quest’ultimo, essendo una verità meramente statistica e non assoluta, è una specie di ipotesi di lavoro sul modo in cui gli eventi evolvono l’uno dall’altro, mentre la sincronicità considera particolarmente importante la coincidenza degli eventi nello spazio e nel tempo, scorgendovi qualche cosa di più che il mero caso, e cioè una peculiare interdipendenza degli eventi oggettivi tra loro, come pure tra essi e le condizioni soggettive (psichiche) dell’osservatore o degli osservatori.
L’antica mentalità cinese contempla il cosmo in una maniera paragonabile a quella del fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello del mondo sia una struttura decisamente psicofisica. L’evento microfisico include l’osservatore esattamente come la realtà che forma il sostrato dell’I Ching abbraccia le condizioni soggettive, ovvero psichiche, nella totalità della situazione momentanea. Come la causalità descrive la sequenza degli eventi, così per la mentalità cinese la sincronicità considera la loro coincidenza.
Orbene, i sessantaquattro esagrammi dell’ I Ching sono lo strumento mediante il quale si può determinare il significato di sessantaquattro situazioni differenti e insieme tipiche. Queste interpretazioni sono l’equivalente delle spiegazioni causali. Il nesso causale è statisticamente necessario e può quindi essere sottoposto a esperimento. Poichè le situazioni sono ogni volta uniche e non possono essere ripetute, sembra impossibile, in condizioni normali, fare esperimenti con la sincronicità. Nell’I Ching il solo criterio di validità della sincronicità è l’opinione dell’osservatore, per il quale il testo dell’esagramma corrisponde a una fedele riproduzione del suo stato psichico. Si presuppone che la caduta delle monete sia proprio quale deve essere necessariamente in una data “situazione”, in quanto ogni cosa che avviene in quel momento vi appartiene quale indispensabile elemento del quadro. Essa forma il disegno caratteristico di quell’istante. Ma una verità ovvia come questa rivela la sua natura significativa soltanto nel caso che sia possibile leggere il disegno e verificarne l’interpretazione, in parte mediante ciò che l’osservatore conosce della situazione soggettiva e oggettiva, in parte mediante il carattere degli eventi successivi.
L’argomentazione che ho esposto fin qui non si è mai affacciata, è ovvio, a una mente cinese. Al contrario, secondo l’antica tradizione, sono delle “entità spirituali” operanti in modo misterioso quelle che fanno dare una risposta sensata. Queste entità formano, per così dire, l’anima vivente del libro. Essendo così quest’ultimo una sorta di essere animato, la tradizione vuole che all’I Ching si possano porre delle domande nella fiducia di ottenerne risposte intelligenti. Le risposte sensate e piene di significato sono la regola. Se l’I Ching non è accettato dalla coscienza, almeno l’incoscio gli va incontro a metà strada, e l’I Ching è più vicino all’incoscio che non all’atteggiamento razionale della coscienza.
Devo confessare che durante la stesura della prefazione non mi ero sentito troppo a mio agio, giacchè, per il mio senso di responsablità verso la scienza, non ho l’abitudine di asserire qualcosa che non posso provare o almeno presentare come accettabile alla ragione. E’ un compito ingrato, in verità tentare di presentare a un pubbico moderno e non privo di senso critico una raccolta di arcaiche “formule magiche” con l’idea di renderle piò o meno accettabili. Io mi sono accinto a questo compito perchè ritengo che nel modo di pensare degli antichi cinesi vi sia ben più di quanto possa sembrare a prima vista.
L’I Ching insiste continuamente sull’importanza di conoscere sè stessi. Il metodo con cui si dovrebbe arrivare a questa conoscenza si presta ad abusi d’ogni genere, e non è fatto, quindi, per le persone frivole e immature; come non è fatto per gli pseudointellettuali e i razionalisti. E’ adatto solo per persone ponderate e riflessive che si soffermano a pensare su ciò che fanno e sulle esperienze che vivono. Non ho una risposta alla moltitudine di problemi che sorgono quando cerchiamo di conciliare l’oracolo dell’I Ching con i nostri canoni scientifici correnti. Ma – inutile dirlo – tutto ciò che è “occulto” va lasciato da parte. L’irrazionale pienezza della vita mi ha insegnato a non scartare alcunchè, nemmeno ciò che va contro tutte le nostre teorie (così effimere, nel migliore dei casi) o comunque non ammette spiegazioni immediate. E’ inquietante, certo, e non si può mai dire se la bussola funziona o è impazzita; ma la sicurezza, la certezza e la quiete non portano mai a nessuna scoperta. Altrettanto vale per questo metodo cinese di divinazione. E’ chiaro che il metodo mira alla conoscenza di sè, sebbene attraverso i millenni sia stato anche messo al servizio della superstizione.
E’ ovvio che io sono profondamente convinto del valore della conoscenza di sè; ma che senso ha raccomandare questa conoscenza quando i maggiori saggi di ogni tempo ne hanno predicato la necessità senza successo? Persino all’occhio più prevenuto è chiaro che questo libro rappresenta una sola, lunga esortazione a esaminare con cura il proprio carattere, il proprio comportamento e le proprie motivazioni. Questo orientamento ha un forte richiamo su di me e mi ha indotto ad assumere l’impegno della prefazione.
Non si possono mettere da parte alla leggera uomini della statura di Confucio e Lao-tse quando si sia in grado di apprezzare la qualità del pensiero che essi rappresentano; e meno ancora si può sorvolare sul fatto che l’I Ching fu la loro principale fonte d’ispirazione.
Data l’estrema antichità e l’origine cinese dell’I Ching, non posso considerare anormale il suo linguaggio arcaico, simbolico e fiorito.
L’antica saggezza dell’Oriente dà la debita importanza al fatto che l’individuo intelligente chiarisca i propri pensieri, ma non ne dà nessuna alla maniera in cui lo fa.
Sembra a me che un lettore non prevenuto dovrebbe ora essere in condizione di formarsi almeno un’idea preliminare circa il “funzionamento” dell’I Ching.
[…]

Zurigo, 1949

JUNG E LO SCIAMANISMO:

Un viaggio tra sincronicità ed evoluzione della coscienza

Eldo Stellucci


 

Prima di entrare nel quadro specifico del nostro tema, proporrei una semplice riflessione di carattere filologico e semantico sui termini salute/salvezza, sacro/salvifico e, last but not least, sul concetto di terapia.

«Salute» e «salvezza» sono termini che possiamo considerare co-originari, ovvero nati da uno stesso concetto, condividendo a lungo la stessa sorte e lo stesso significato globale originario, che venne a scindersi storicamente e culturalmente solo molto più tardi. Si tratta del significato sanscrito di svastha (benessere, pienezza) che poi ha assunto la forma semantica del nordico heill e più recentemente di heil, whole, hall nelle lingue anglosassoni, che indicano «integrità» e «pienezza». Lo stesso accade per il termine soteria nella lingua greca, dove appunto il dio greco della medicina, Asclepio, appare come soter, «colui che guarisce» e che è nello stesso tempo il «salvatore». Nella lingua latina è emblematico il significato di salus, termine che ancora oggi incorpora sia il significato di «salute» sia quello di «salvezza». Ma occorre ricordare che anche in altre lingue è avvenuta la stessa combinazione. Ad esempio, il termine ebraico shalom (pace, benessere, prosperità) e la formula dell’antico egiziano snb che indica pure benessere fisico, vita, salute, integrità fisica e spirituale. Tutti questi termini esprimono in definitiva la salvezza come «integrità dell’esistenza», come «totalità di situazioni positive», non intaccate dal male, dalla malattia, dalla sofferenza, dal disordine. Da questo punto di vista era infatti impossibile distinguere nel pensiero antico tra salvezza e felicità in quanto l’una confluiva necessariamente nell’altra. L’aspetto teologico che oggi si attribuisce al primo termine, entro un contesto esclusivamente religioso, era inseparabile dall’aspetto antropologico che assumeva lo stesso termine in contesti meno religiosi.

Un analogo processo si è dipanato nel corso della storia anche in riferimento al confronto tra «sacro» e «salvifico». Anche qui l’analisi filologica ci viene in aiuto in riferimento ai concetti di sacer e heilig. Tra gli studiosi è opinione diffusa che le aree semantiche in cui ricorre il termine «sacro» siano fondamentalmente due. La prima è alla base dei termini sacer, sanctus, hagios, kadosh, ed è connessa con il culto, con ciò che è «consacrato». Si indica essenzialmente ciò che è «messo da parte», che è «separato» e che viene di conseguenza riservato alla divinità. La seconda area semantica, invece, sembra gravitare intorno al termine sanscrito yaj e l’avestico yaz con un significato iniziale di «concessione, regalo» che poi si è esteso al significato di «dotato di poteri», «particolarmente utile» tramite l’avestico spenta collegabile allo slavo svetu. Il passaggio significativo si sarebbe avuto quando le lingue germaniche tradussero spenta con heilwirkend (cio’ che produce benessere), utilizzando una radice del termine che significa «intero, solido, intatto». Fu facile il passaggio a contesti più vicini a «forte», «in salute» e «di buon auspicio». Possiamo ancora risalire al gotico Hails che significava «sano», mentre l’antico islandese e l’alto tedesco Heil e il runico heilag significano rispettivamente «di buon auspicio» e «di buona fortuna».

Ora tutto ciò sta a indicare un’origine comune e suggerisce un compito integrato delle religioni in rapporto all’uomo e al suo destino globale. Le religioni hanno da «salvare» l’uomo nella sua totalità, oggi diremmo secondo una visione psicosomatica, cioè sul piano fisico, psicologico, spirituale. Anche il sacro è il «salvifico» per eccellenza. La salvezza non è dissociabile dalla salute e isolabile dai contesti in cui si vive. Da qui prende piede lo «star bene» godendo di un sentimento di «pienezza» e di «integrità». Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha colto benissimo le correlazioni tra salute e integrità quando ha espresso nel suo paradigma fondamentale la salute come «stato di completo benessere fisico, spirituale e sociale» creando non poche resistenze per una definizione così allargata all’interno della classe medica. È interessante anche come nel Vangelo di Luca 9, 1-6, si dica:

«Gesù chiamò a sé i dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi… Essi annunciarono dunque la buona novella e operarono guarigioni».

A questa visione presta soccorso nel corso della storia delle religioni il termine «terapia» che inizialmente non fu affatto un termine medico ma religioso. Nella concezione classica degli antichi il concetto di therapéia indicava innanzitutto «un assistere», uno «stare vicino», un «prendersi cura» e si trattava di un termine che è nella sostanza molto vicino al concetto cristiano di diakonía.

La visione sciamanica come primissima forma di contatto con il sacro e al tempo stesso di cura e di guarigione, a proposito della definizione e della sua concezione della salute, (argomento di cui ci occuperemo in esteso in riferimento al pensiero di Carl Gustav Jung), si allontana dalla nostra classica visione occidentale. La salute è un fatto globale, è una condizione di benessere, uno stare bene nel corpo e nello spirito, è un giusto equilibrio tra le forze della natura e le forze dello spirito. Questo equilibrio può essere soltanto il risultato di uno stretto equilibrio con entrambi gli ambiti della realtà: lo spirito deve armonizzarsi con il corpo, con il mondo circostante, con la natura, con gli altri e con gli spiriti del mondo. Una visione che ricorda la concezione olistica della natura psicosomatica dell’uomo e quella della cultura neoplatonica rinascimentale con la sua visione dell’anima mundi, dell’anima del mondo.

Se lo sciamano imita il canto degli uccelli (così ancora simile per via analogica alle conoscenze della c.d. «lingua verde», del «linguaggio degli uccelli» dell’iniziato) e conosce il linguaggio della natura, questo è soltanto un simbolo della sua capacità di vivere in una stretta unione con essa. Se nella sua trance si reca nell’aldilà, nei «mondi altri» per strappare l’anima che è stata rubata all’ammalato, ciò sta a dimostrare la grande dimensione spirituale che è comune alla salute. Lo sciamano usava tremila anni fa attraverso le sue «tecniche dell’estasi» quelle tecniche di gruppo che oggi riscopriamo per esempio con i gruppi Balint. Lo psicodramma, le terapie di gruppo, l’analisi dei sogni, la suggestione, l’ipnosi, la catarsi, l’immaginazione guidata e le terapie psichedeliche facevano già parte del suo bagaglio terapeutico e dei suoi riti di guarigione.

La concezione sciamanica va al di là della comune concezione biologica e fisiologica dell’Occidente. La salute parte da una dimensione spirituale, di profonda armonizzazione cosmica e di interrelazione con tutti gli elementi in cui la natura umana è interprete, anticipando una visione olistica, multisistemica delle relazioni tra natura, cultura e spiritualità. Il principio di fondo è semplice e tuttavia fondamentale per uno scavo in profondità e per meglio comprendere la natura complessa dello stesso «processo di guarigione»: il corpo non può stare senza l’anima.

L’arte e la pratica della psicoterapia è nella sua infanzia comparabile alla storia millenaria dello sciamanismo. Ci sono caverne nel sud della Francia che contengono dipinti di sciamani in trance di oltre dodicimila anni fa. Estendendosi non solo nel tempo ma nello spazio, le pratiche sciamaniche sono state rintracciate in tutto il mondo, dalla Patagonia alla Siberia. Non dovrebbe quindi sorprenderci che uno studioso attento come Carl Gustav Jung abbia realizzato, con la sua profonda concezione del processo di guarigione, delle riflessioni estremamente puntuali sulle molte forme di guarigioni e di medicine primitive, sciamanismo compreso. Egli scrisse infatti :

«L’estasi [dello sciamano] è spesso accompagnata da uno stato [di coscienza] in cui lo sciamano è “posseduto” dallo spirito dei suoi familiari o di quelli guardiani. Tramite questa possessione egli acquista gli organi mistici che in qualche modo costituiscono la sua vera e completa personalità spirituale. Questo conferma l’inferenza psicologica che può essere data dal simbolismo sciamanico, che diventa una proiezione del processo di individuazione.» (Jung, L’albero filosofico, CW, 1967, vol. 13, p. 341.)

Jung realizzò che nonostante le differenze, sia lo sciamanismo che la psicologia analitica si focalizzano sul processo di guarigione e sulla crescita (individuazione ) della personalità. Molti episodi specifici della vita di Jung fanno riferimento direttamente e indirettamente a un percorso di vera e propria iniziazione e trasformazione sciamanica. L’osservazione dell’emersione di una personalità di questo genere, con tutto il patrimonio teorico, esperienziale che ci ha consegnato, ci ha permesso di cogliere e proporre nel corso di questa rivisitazione una lettura della relazioni tra questa antichissima e ultramillenaria «tecnica del sacro» e la psicologia analitica di Jung.

Cercheremo di valutare alcuni spaccati della sua vita e del suo lavoro terapeutico senza peraltro addentrarci in questioni cliniche particolarmente specifiche. Potremmo dire subito che tutta la vita e l’esistenza di questo grande studioso svizzero presenta caratteristiche e consonanze molto simili a quelle degli sciamani. Alcuni di questi singoli confronti potranno apparire ad un primo esame fortuiti, casuali, ma quando colti nel loro insieme, potranno apparirci più chiari e significativi. Esamineremo le esperienze del guaritore Jung (healer) nel contesto del suo complesso o archetipo sciamanico cercando di gettare luce proprio sulle implicazioni sciamaniche del suo lavoro.

Lo studio della sua vita nei suoi aspetti biografici e soprattutto autobiografici (nel corso degli ultimi cinque anni le biografie critiche di Jung sono aumentate in modo significativo) ha acquistato sempre maggior importanza e significatività come fondamentale contributo alle discipline che si occupano della guarigione psichica. Gli scopi principali del suo lavoro, ma direi dell’intera sua esistenza (in Ricordi, sogni, riflessioni [RSR] dirà che la sua vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio), sono orientati alla comprensione del processo di guarigione della psiche che si esprime e realizza con il suo fondamentale concetto di individuazione, che è l’idea di una realizzazione delle piene potenzialità psicologiche dell’individuo.

Mentre Jung fu ufficialmente uno psichiatra e un medico, il suo pensiero negli ultimi tempi è stato sempre più diffusamente esaminato ed ampliato, non solo dalla letteratura specialistica ma anche da una molteplicità di altre prospettive transdisciplinari, religiose, filosofiche, antropologiche, sociologiche e recentemente anche politiche. Mentre molti di questi livelli interpretativi rappresentano un contributo fondamentale al quadro più generale della sua «psicologia complessa» e appaiono indubbiamente utili per i nostri scopi, la dimensione complessiva dell’uomo-Jung rimane ancora per molti versi un mistero.

Joseph Henderson, psicologo analista a sua volta analizzato da Jung, dice:

«C’era tuttavia un altro aspetto del carattere di Jung che si rifiutava di conformarsi ai pattern culturali tradizionali europei perché sembrava totalmente fuori da ogni cultura, limite e valore predefinito. […] Sembrava essere attraversato e forzato da un livello primitivo, arcaico, transpersonale dell’essere. Oggi penso alla sua natura sciamanica. […] Questa stessa tendenza sciamanistica era parte essenziale ed integrante del medico e dello psicologo durante le nostre ore di analisi.» (Henderson, 1963.)

Gli sciamani erano gli originali medicine-men (uomini-medicina), praticanti il più antico sistema di guarigione conosciuto al mondo.

Confronti e contrasti con lo sciamanismo

Il più importante punto di partenza comune tra Jung e lo sciamanismo è la valutazione dell’anima. Jung spesso tradusse la parola psyché dalla parola tedesca Seele, che significa anima, soprattutto quando cercava di cogliere la profondità e la natura plurale e in qualche modo pluralistica della psiche, enfatizzandone la sua molteplicità (Hillman direbbe politeistica). Anche lo sciamano vede l’anima come una pluralità di energie psichiche che possono coesistere in un bilanciamento armonico all’interno dello stesso individuo. Nello stesso modo Jung vede l’anima come una molteplicità nella unità. Come ci ha ricordato più volte James Hillman nello sviluppo della sua psicologia archetipica, c’è un certo sentimento animistico nei contenuti della psiche che Jung cercò di far emergere. È importante notare che questo animismo tende sempre ad essere una valutazione metaforica in Jung, mai letterale. Per esempio, i suoi principali termini psicologici non sono affetti, cognizioni, volizioni o altri termini comportamentali, ma egli usa nello stesso tempo termini altamente suggestivi, poetici, addirittura animistici, enfatizzando le potenzialità mitopoietiche e immaginali della psiche. Non sottovaluteremo come la parola animismo derivi dalla parola anima, che nella metapsicologia junghiana sarà una metafora esplicativa estremamente importante e significativa. Questi termini sono personificazioni di energie e strutture psichiche profonde, pensiamo alla metafora dell’ombra, del vecchio saggio, della sigizia anima/animus, del trickster, del buffone sacro, e così via. L’uso di un linguaggio così evocativo ha il senso di portare la realtà immaginale della psiche alla vita, all’emersione, alla rappresentazione. Jung diede a questi termini uno statuto numinoso per dilatare la loro importanza nel funzionamento della psiche. Jung e lo sciamano dunque hanno un approccio alla psiche secondo una modalità immaginistica, direi immaginale (nella visione che ne diede Henri Corbin parlando del mundus imaginalis). Per Jung l’anima era così importante come realtà in-sé e non un banale epifenomeno del processo biologico.

Il complesso dello sciamano e l’archetipo dello sciamano

Gli studi sulla fenomenologia sciamanica si arricchiscono continuamente delle più diverse prospettive di lettura, da quelle antropologiche, storico-religiose, psicologiche, a quelle medico-psichiatriche. Recentemente la frequenza e l’inflazione delle stesse parole «sciamano» e «sciamanismo» ne hanno dilatato moltissimo il significato originario, da un lato ampliandolo e semplificandolo, ma anche estendendone l’uso a troppo facili e comuni banalizzazioni pseudo-esperienziali tipiche dell’attuale supermarket del sacro, con il rischio di essere ridotto a contenitore generico privo di ogni connotato storico, metodologico e con il conseguente svuotamento sul piano del significato.

Sapientemente molti esponenti di culture native hanno incominciato a rifiutare lo stesso termine, «sciamano», attribuito alle proprie figure religiose tradizionali, ritenendo che esso rappresenti ormai «una sorta di spoliazione culturale e di travisamento delle peculiarità delle tradizioni indigene» alle quali verrebbe sovrapposta un’arbitraria, banalizzante e semplicistica etichetta. (Comba) Il termine «sciamano» è la derivazione da una parola russa che a sua volta riprende un vocabolo della lingua dei Tungusi della Siberia, Saman, il cui significato è «colui che è eccitato, mosso, risorto». Un’altra origine etimologica chiamerebbe in causa l’antico indiano, il cui significato è «riscaldare se stesso, animarsi o praticare austerità», o ancora un altro verbo tunguso con il significato di «sapere».

Il grande storico delle religioni Mircea Eliade sottolineò che il ruolo e la funzione dello sciamano è innanzitutto quello di essere coinvolto nelle c.d. «tecniche dell’estasi». Lo sciamano va in estasi o trance ed ha una comunione e un contatto diretto con gli spiriti coinvolti nella malattia o nel danno dell’individuo o della stessa comunità. Egli ha la capacità in questo sistema sociale, religioso e simbolicamente riconosciuto, di comunicare con la morte, con i demoni, con gli spiriti di natura senza esserne catturato o sopraffatto. Significativo è che lo spirito dello sciamano possa lasciare il proprio corpo e vagare intenzionalmente nei «mondi altri» dove egli cerca l’anima perduta del malato restituendola. Ma lo sciamano è soprattutto in grado di curare la più terribile forma di malattia primitiva: la perdita dell’anima.

Un altro importante studioso di mitologia comparata e fenomenologia sciamanica, in particolare nativo-americana, Ake Hulkrantz, fa notare che gli elementi costitutivi che contribuiscono a definire il fenomeno sciamanico sono essenzialmente quattro:

  1. La premessa ideologica sull’esistenza di un mondo invisibile o soprannaturale e la possibilità di entrare in contatto con questo mondo.
  2. Lo sciamano come operatore che agisce in nome e a beneficio dell’intera comunità.
  3. I poteri conferiti allo sciamano dall’ispirazione ottenuta dagli spiriti aiutanti.
  4. L’esperienza straordinaria di tipo estatico. (Hultkrantz, 1999.)

 

La guarigione sciamanica nella sua forma fondamentale è quel processo in cui può avvenire la restituzione dell’integrità psichica e fisica, sia che si tratti della restituzione dell’anima, eliminando il male o uno spirito maligno o comunque estraneo dal corpo del malato, sia rimuovendo oggetti all’interno del corpo o bloccando ed inibendo malefici, oppure ancora risolvendo una colpa per aver infranto un qualche tipo di tabù. Tutte queste procedure sono orientate al bilanciamento e al ripristino dell’armonia dell’anima del soggetto e del suo rapporto funzionale con il mondo.

Il «complesso sciamanico» con il suo caratteristico pattern archetipico si presenta con diverse caratteristiche, ma con una serie di tratti costanti e significativi. Innanzitutto la comparsa di una grave e precoce malattia nei soggetti che verranno chiamati ad essere sciamani. La malattia dunque è sperimentata sotto forma di «chiamata». L’ordine della vita di questo individuo è disturbata al punto che nel tentativo di curare se stesso, egli dovrà diventare un guaritore. Si confronterà con le più ardue prove, quei riti di iniziazione necessari per ottenere i poteri dello sciamano e la facoltà di sciamanizzare. Questa iniziazione coinvolgerà una profonda e significativa ristrutturazione della personalità attraverso un’esperienza di «morte e rinascita» arricchita da stati alterati di coscienza e di estasi in cui lo spirito può lasciare il proprio corpo ed entrare in contatto con i «mondi altri». Parte di questo processo di iniziazione può essere rappresentato dallo «smembramento» sciamanico, rappresentato dalla potente visualizzazione ed esperienza della percezione di se stesso sotto forma di scheletro e della propria morte reale e simbolica. Il candidato sciamano potrà procedere attraverso ulteriori processi evolutivi nel corso del suo training in grado di assicurargli certi tipi di poteri personali. Uno sciamano spesso ottiene i poteri della telepatia, della psicocinesi, della precognizione, della chiaroveggenza e naturalmente la capacità di sconfiggere certe malattie in contrasto anche con le più comuni elementari e acquisite leggi fisiche. Ma il potere più importante rimane la capacità di «vedere» nel «mondo altro» e attraverso il corpo e l’anima del malato, riuscendo a identificare ed eliminare la causa delle malattie. Inoltre lo sciamano è sempre in grado di operare in relazione con i suoi spiriti aiutanti che lo soccorreranno durante l’intero processo di guarigione.

Gli sciamani spesso sono associati a specifici animali che sono in grado di offrire loro il proprio particolare potere, potranno invocare la loro energia di guarigione. Lo sciamano ha sovente una «sposa celeste» che lo supporta, lo aiuta come guida o come musa.

Oltre a queste esperienze, egli evoca un mito di guarigione invocando simboli normalmente correlati con il contesto culturale in cui vive. Da questo mito di guarigione deriva una relazione trascendente con i mondi celesti e gli dei della sua cultura, con il risultato che la salute potrà trionfare sulla malattia ed essere raggiunta una armonizzazione da parte della persona che cerca i suoi servizi. Un particolare significato, in molti modelli culturali sciamanici, acquista l’idea dell’«albero del mondo», un albero che raggiunge i tre mondi noti della cultura e cosmologia sciamanica. Il mondo dell’oltretomba, dell’oscurità, dei demoni, dove esiste il male; il mondo mortale, quello degli uomini, il mondo del qui e ora; e infine il mondo superiore, celestiale, là dove abitano gli dei. Lo sciamano può ascendere e discendere a tutti questi tre mondi attraverso l’albero del mondo.

La malattia sciamanica di Jung

Nei suoi primi anni di vita Jung soffrì di un fastidioso eczema che coincise con la separazione dei suoi genitori. Egli racconta di aver avuto idee suicide in quegli anni. Descrisse di essere stato attraversato da vaghe paure e angosce notturne, di sentire voci, di vedere corpi abbattuti sulle rocce e nei pressi di un cimitero. Avrebbe spesso visto l’immagine di uomini in giacche e stivali neri e sentito donne urlanti e piangenti. All’età di 3 o 4 anni Jung ricorda il primo sogno significativo che lo preoccupò e lo fece meditare per il resto della vita, diventando il suo mito personale. Nel sogno vide uno splendido trono:

«un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa 4 o 5 metri di altezza e 50 cm di diametro. Era una cosa immensa, che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli, e con solo un unico occhio che guardava fisso verso l’alto. […] Al di sopra della testa vi era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza che diceva: “Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini”.»

Per Jung bambino questa colonna di carne era un fallo rituale che rappresentava paradossalmente e angosciosamente la figura di Gesù (associato con i Gesuiti vicini alla sua casa), che avrebbe dovuto divorarlo. Il fallo era associato con la morte e con la tomba; l’occhio indicava l’avvento di una coscienza emergente che lo avrebbe segnato per il resto della vita. Ma il fallo era un dio sotterraneo, un dio così profondo che lo avrebbe trattenuto dalla piena accettazione della dottrina cristiana.

Durante gli anni della prepubertà presentò ancora sintomi fisici e psichici di natura estremamente fastidiosa. Soffrì di crisi di soffocamento e di angosce notturne con immagini di uomini con teste mozzate. Ebbe numerosi episodi d’ansia. Si sentiva alienato e separato dai suoi coetanei. Spesso si sedeva su una grande roccia (e qui inizia il significativo rapporto di Jung con la pietra, quasi ad anticipare la tensione psicospirituale che ritroverà, negli anni successivi, nella comprensione psicologica dell’alchimia con la sua spiritualizzazione della materia e il conseguente processo di trasformazione) sulla quale pensava:

«Era la mia pietra. Spesso, quando ero solo, andavo a sedermi su quella pietra, e cominciava allora un gioco fantastico, pressappoco di questo genere: Io sto seduto sulla cima di questa pietra e la pietra è sotto; ma anche la pietra potrebbe dire “Io” e pensare: Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me. Allora sorgeva il problema: Sono io quello che è seduto sulla pietra o io sono la pietra sulla quale egli siede?»

Jung possedeva un astuccio per matite. Ad una delle estremità incise un piccolo pupazzo in cilindro e scarpe nere, lo separò dal regolo e lo depose nell’astuccio dove aveva predisposto un lettino. Nell’astuccio depose anche un piccolo ciotolo proveniente dalle rive del Reno, che aveva tenuto a lungo nelle tasche dei pantaloni. Lo colorò dividendolo in due parti:

«Era la sua pietra. Tutto ciò costituiva il mio grande segreto. Di nascosto portai l’astuccio nella soffitta proibita e lo nascosi su una trave sotto il tetto. […] Ero certo che lì nessuno avrebbe mai potuto scoprire il mio segreto e distruggerlo.»

Più tardi lo mise in relazione con altre immagini di pietra che erano state viste nei templi greci dedicati ad Asklepios e che erano usate come amuleti di guarigione.

«Non mi preoccupai [allora] mai di cercare un significato o di spiegarmi il perché di ciò che facevo; mi appagavo del sentimento della riconquistata sicurezza ed ero contento di possedere qualcosa che nessuno conoscesse e potesse scoprire. Costituiva un segreto inviolabile che non doveva essere tradito, pena la salvezza della mia vita. […] Era così e basta.» (RSR)

Questo è un altro esempio della «malattia creativa» giovanile di Jung caratterizzata da frequenti sintomi isterici che incominciavano ad assomigliare a vere e proprie stigmate sciamaniche. Eliade ci farà notare che spesso le pietre diventano oggetti sacri investiti di poteri che potranno essere utilizzati nel corso del processo simbolico di guarigione. Qualche anno dopo, verso i 10-11 anni, Jung ricevette un colpo alla testa cadendo sotto la spinta di un compagno di classe. A questo fatto seguirono frequenti episodi di svenimenti per circa sei mesi in coincidenza della possibilità di rientrare a scuola, ma anche turbato dall’aumentata conflittualità tra i suoi genitori. Jung ebbe la possibilità di star lontano da una realtà che non lo interessava e immergersi totalmente nelle ricche fantasie di bambino e nella sua già profondissima vita interiore a stretto contatto con la natura. Questi incidenti rappresenteranno le premesse esperienziali della sua futura teoria della nevrosi.

Durante un colloquio udito casualmente tra il padre e un amico a proposito di questi episodi e delle preoccupazioni relative a una sospetta epilessia di Carl, Jung venne scosso profondamente, permettendo il ripristino ed il contatto con il principio di realtà:

«Da allora divenni un ragazzo serio.»

Più tardi parlò di nevrosi come rifiuto di sopportare una legittima sofferenza.

Non troppo tempo dopo questi episodi Jung incominciò a realizzare che in lui abitavano due persone distinte: la personalità numero 1 e la personalità numero 2. La personalità numero 1 era intellettuale, razionale, coinvolta nella vita di tutti i giorni, cercava al di fuori il significato diretto delle cose. La personalità numero 2 era invece quella di un uomo anziano, scettico, diffidente, lontano dal mondo degli uomini, vicino al mondo della natura, della terra, del sole, della luna, degli elementi e a tutte le creature viventi. Questo costituirà il terreno su cui si svilupperà la quota mistica e intuitiva di Jung. Uno dei più significativi criteri di valutazione della personalità sciamanica è proprio la sua capacità di dissociare. Al centro dell’esperienza sciamanica c’è infatti la capacità dissociativa in grado di condurlo verso alterati stati di coscienza e verso l’estasi. Questa dinamica costitutiva è per Eliade essenziale per l’esperienza sciamanica.

Sebbene egli abbia sempre negato di essere stato una personalità «dissociata» nel senso clinico del termine, è mia opinione che durante gli anni successivi Jung ebbe fenomeni depressivi e soffrì profondamente della sua «malattia creativa». La descrizione delle caratteristiche delle sue due personalità, così come risulta dalla sua autobiografia, suggerisce che questa «capacità dissociativa» fosse da un lato una fonte importante della sua creatività e contemporaneamente un tentativo di allontanare quegli aspetti disfunzionali della relazione tra lui e i suoi genitori e tra i genitori stessi. Egli notò ad esempio che la personalità numero 2 lo conduceva inevitabilmente nella malattia e nella depressione.

Oltre a queste stigmate dissociative, Jung ebbe potentissime capacità di vedere le cose in trasparenza, in modo telepatico e visionario, altre caratteristiche della personalità sciamanica. Aveva inoltre una profonda capacità e potere di entrare in contatto con gli animali e di sentirsi in rapporto con le loro anime. Queste sono alcune delle prime esperienze della vita di Jung che lo hanno condotto verso un processo di iniziazione al pari degli antichi sciamani. Giungeranno negli anni successivi esperienze ancora più profonde e significative.

L’iniziazione sciamanica di Jung

L’intenso coinvolgimento con Freud tra il 1913 e il 1916 segneranno gli anni della sua più profonda e drammatica discesa nell’inconscio. Questo periodo iniziò con un altro sogno molto significativo che fece in un viaggio assieme allo stesso Freud sulla nave che li stava trasportando negli Stati Uniti, dove erano stati invitati a tenere una serie di conferenze alla Clark University. In questo sogno Jung vide la sua casa strutturata con parecchi piani e livelli. Nei piani inferiori, in locali appartenenti ad epoche storiche diverse comparivano ossa e crani. Questa fu la sua prima e significativa rappresentazione di un «diagramma della psiche». Le sue successive formulazioni di un inconscio personale e collettivo deriveranno proprio dalle immagini di questo sogno. Sebbene ci fossero molti complessi personali coinvolti nel sogno, non secondario il rapporto con lo stesso Freud e con le loro reciproche ambivalenze relazionali, fu soprattutto di grande significato l’immagine finale riguardante i due crani. In base al nostro punto di osservazione potrebbe in qualche modo presagire l’immagine di un’iniziazione sciamanica che entrambi, sia lui che Freud, avrebbero dovuto sperimentare per comprendere il processo di guarigione nella sua vera essenza.

Jung subì un profondo disorientamento dopo la sua rottura con Freud. In quegli anni di disagio e sofferenza alcuni suggerirono e videro la comparsa in Jung di una vera e propria rottura schizofrenica, psicotica; altri una complessa «malattia creativa», altri ancora una nevrosi. A mio parere furono anni caratterizzati da una profonda dissociazione isterica con le coloriture della «malattia creativa», una malattia dell’anima di immense proporzioni i cui sintomi erano per altro visibili già durante la sua primissima infanzia. Se ci soffermiamo a cogliere i processi di sviluppo delle vere e proprie iniziazioni sciamaniche, troveremo notevoli e significativi punti di contatto e coincidenze.

Durante gli anni della Prima Guerra mondiale, Jung ebbe delle esperienze «visionarie» caratterizzate da vere e proprie qualità profetiche e preveggenti. Nell’autunno del 1913 la sua depressione si accentuò e sorsero le prime visioni. In una di queste vide l’Europa attraversata da un mare di sangue. Annunciò una catastrofe di migliaia e migliaia di morti. In questa visione il mare si colorava drammaticamente di rosso intenso. Pensò di vivere una vera e propria dissociazione psicotica. Dopo il 1914 ebbe un sogno caratterizzato dalla diffusione di un freddo glaciale che si estendeva progressivamente sulla terra per distruggere l’intera vita umana. Annunciava in realtà la drammaticità dello scoppio del primo conflitto mondiale. In questi anni Jung visse in una sorta di trance continua. Sono anche gli anni di studio intensissimo dello gnosticismo e delle sue prime intuizioni alchimistiche, strumenti non solo di conoscenza ma di radicamento nella ricerca di significato del contatto con le profondità dell’inconscio. Sono gli anni del libro rosso. Soprattutto in questa discesa Jung incontrerà figure visionarie con le quali coltiverà un profondo dialogo interiore. Si confronterà con figure immaginali dell’inconscio collettivo come Elia, Salomè, Filemone che gli permetteranno di ricostruire il senso e il significato di questo terribile viaggio agli inferi e all’interno della sua anima.

Nasce la tecnica dell’immaginazione attiva. Queste figure interiori avranno le caratteristiche degli spiriti aiutanti con cui lo sciamano spesso si confronta. Era una sorta di confronto spietato, una sorta di lotta contro la perdita dell’anima così come avviene nei processi di iniziazione sciamanica.

Jung come sciamano e guaritore

I ricordi di Jung come guaritore sono particolarmente vivi e significativi per l’inusuale stile che rivelano. Egli stesso ricorda casi in cui esercitò profonde e medianiche capacità telepatiche e preveggenti nel rapporto con i suoi pazienti, particolarmente nell’affrontare la questione insidiosa del transfert. In un caso particolare, prima di vedere una giovane paziente ebbe un sogno in cui descriveva perfettamente le caratteristiche psicologiche fondamentali di questa donna. Le abilità intuitive, cognitive e interpretative di Jung si raffineranno sempre di più integrandosi con il profondo processo di trasformazione della sua personalità. Jung era il solo analista che riuscisse ad analizzare i sogni dei pazienti senza ascoltarli direttamente. Questo è certamente un attributo sciamanico. Potrebbero essere enumerati moltissimi altri casi significativi in cui la personalità di Jung diventa nella sua essenza così carica di qualità magico-numinose al punto di indurre potentissime reazioni trasformative e coscienziali nei suoi stessi pazienti e conoscenti, nonché analizzandi. È una personalità che trasforma. A questo proposito Jung sarà sempre molto esplicito. Parlando del senso della malattia, del disturbo, dirà che se considerata in maniera finalistica è un tentativo della natura di guarire l’uomo. Questa guarigione, nel senso più profondo del termine è trasformazione. Questa «configurazione, riorganizzazione» risanatrice, questo scambio del «cuore di pietra» con un «cuore di carne» (secondo Ezechiele) non è possibile senza la necessità della sofferenza. (Barz, Kast, Nager, 105.) Jung scriverà:

«Nessuno sviluppa la propria personalità perché qualcuno glielo ha detto che sarebbe utile farlo. […] Senza necessità nulla si cambia, meno che mai la personalità umana. Essa è tremendamente conservatrice, per non dire inerte. Solo la necessità più acuta può stanarla. Allo stesso modo anche lo sviluppo della personalità non ubbidisce ad alcun desiderio, ad alcun ordine né ad alcuna comprensione profonda, ma solo alla necessità. Ha bisogno della costrizione motivante di interni o esterni destini.» (C.G.Jung, Opere, vol. XVII.)

In un interessante caso segnalato da Joseph Henderson, sembra che Jung si fosse confrontato anche con poteri di presunta «contro-stregoneria» (Eliade) nei confronti delle influenze negative e distruttive esercitate da una signora anziana verso i propri nipoti. Jung attivò in quel contesto alcuni esercizi mentali che sembrarono interferire e bloccare l’inferenza manipolante di questa anziana donna che dopo poco morì di causa sconosciuta, lasciando «liberi» i nipoti da una «fattura a morte». Questa è un’altra caratteristica sciamanica del combattimento tra forze ontologiche contrapposte, tra le forze del bene e del male.

È documentato il caso in cui Jung diagnosticò un ascesso cerebrale in un paziente semplicemente leggendo i sogni del paziente e non conoscendo nulla della sua vita. In un’altra situazione differenziò e diagnosticò in modo estremamente circostanziato una malattia organica ad una donna con personalità isterica, utilizzando semplicemente i sogni del soggetto. Normalmente queste modalità diagnostiche sono altamente inusuali al di fuori di certi pattern standard dell’esperienza psicoterapeutica.

Il mito sciamanico di guarigione di Jung

Quando Jung formulò la sua teoria della psiche centrata sulla teoria dei complessi e degli archetipi, l’inconscio personale e l’inconscio collettivo, nella sua necessità di trovare gli antecedenti storici della sua metapsicologia, fece costanti riferimenti all’animismo come uno dei più antichi sistemi di credenze al mondo. Questo sistema religioso è intimamente connesso con lo sciamanismo con i suoi riferimenti ad una realtà naturale che è sempre vitale e vibrante.

Jung correlò la malattia sciamanica della perdita dell’anima (la malattia antica più conosciuta al mondo) e l’intrusione dello spirito (o possessione dello spirito) direttamente alla sua teoria psicopatologica correlata all’inconscio personale (complessi) e all’inconscio collettivo (archetipi) e in questa formulazione collocò sia la depressione che la schizofrenia.

Per quanto riguarda la metodologia psicoterapeutica e analitica, Jung descrisse quattro differenti metodi che indicò essere alla base di ogni psicoterapia e di ogni agire psicoterapeutico, compresa la sua. Queste comprendono la confessione o abreazione, l’elucidazione o interpretazione, il metodo educativo e quello trasformativo. Egli identificò forme di trattamento religioso con gli approcci confessionale e abreativo; la psicoanalisi classica di derivazione freudiana con il metodo interpretativo e la social-metodologia di Adler con quello pedagogico. Infine colse nel proprio metodo simbolico-analitico l’approccio trasformativo. Ognuna di queste metodologie ha un qualche rapporto con lo sciamanismo. La confessione e l’abreazione rientrano in metodologie e ritualità di purificazione. Ma è con i metodi della trasformazione simbolica che Jung e la sua prassi si avvicineranno sempre di più al modello sciamanico.

Quando Jung parla della metodologia e della psicodinamica del processo trasformativo, ci conduce all’interno di una relazione psicoterapeutica in cui sia il paziente che il terapeuta vengono «trasformati» e il modello junghiano dello scambio dialettico acquista tutta una sua particolare significatività. È questa metodologia che può essere considerata più vicina all’esperienza sciamanica, dove il guaritore (healer) può avere un contatto più diretto con il disturbo del paziente e forse recarsi come sciamano nei «mondi altri» e combattere con i poteri dell’oscurità liberando il paziente dalla sua malattia. Al centro di questo processo si costellerà l’archetipo del «guaritore ferito». Questo è nella sostanza il pattern archetipico centrale di ogni processo di guarigione a un livello molto profondo. Lo sciamano e l’analista junghiano sono «guaritori feriti». Poiché hanno la ferita, essi «conoscono» la ferita e possono trattare quella del paziente.

Il sacerdote, l’uomo-medicina o il medico, l’insegnante e lo sciamano formano in un certo senso una categoria di «guaritori» molto interessante. Lo sciamanismo, la più antica forma di guarigione a noi conosciuta è il prototipo da cui sono derivate in senso evolutivo tutte le altre forme di guarigione. Jung enfatizzerà questa concezione al centro della sua teoria di guarigione.

Il mito di guarigione di Jung e il suo mito personale si svilupperà come già indicato proprio a partire dalle complesse psicodinamiche della sua personale difficoltà di rapporto con i genitori e dai suoi sforzi di risanare la loro separazione. La madre tendeva a personificare una natura primitiva della psiche. Sia lei che i suoi antenati avevano avuto esperienze transpersonali, di contatto e di channeling con realtà spiritiche e con fenomeni di natura parapsicologica. Di sua madre Jung dirà, ribadendo tratti che ritroverà poi in se stesso:

«Ero sicuro che in lei c’erano due personalità; una innocua, umana, l’altra inquietante: quest’ultima si manifestava solo di tanto in tanto, ma ogni volta inattesa, e tale da incutere timore: allora parlava come se si rivolgesse solo a se stessa, ma ciò che diceva si riferiva a me, e di solito colpiva le intime fibre del mio essere, mi lasciava senza parole. […] C’era un’enorme differenza tra le due personalità di mia madre, ed era per questo motivo che da bambino la vedevo spesso in sogni angosciosi. Di giorno era una madre amorevole, ma di notte mi appariva inquietante: era come una di quelle veggenti che sono al tempo stesso uno strano animale, come una sacerdotessa nella grotta di un’orso. Arcaica e spietata; spietata come la verità e la natura. In tali momenti era la personificazione di ciò che ho chiamato natural mind, la mente naturale. Anch’io posseggo questa natura arcaica, e in me si combina col dono – non sempre piacevole – di vedere la gente e le cose come sono realmente.» (RSR, p. 78-79.)

Non dimentichiamo che Jung, stimolato dalle esperienze parapsicologiche e medianiche della cugina Helene, fece la sua tesi di laurea in medicina proprio sulla natura e sulla psicologia dei c.d. fenomeni occulti.

Dall’altro lato, la figura paterna, pastore protestante, era una persona molto più razionale. Jung ebbe tuttavia difficoltà a trovare un rapporto emozionale con lui, non riuscendo a condividere e risolvere i suoi problemi religiosi in modo intellettuale. Celebre fu la risposta che diede a Carl quando nell’affrontare la formazione catechistica, di fronte al capitolo della Trinità, si fermò e gli disse:

«Ora ci dovremmo occupare della Trinità, ma la tralasceremo, perché in realtà non ne capisco nulla io stesso.» (RSR, p. 82.)

In una straordinaria esperienza che potremmo definire «sciamanica» a tutti gli effetti, Jung descrisse la sua interazione con il padre. Notò che non aveva più sognato suo padre dal 1896, anno della sua morte. Per molti anni si meravigliò di non aver avuto più contatti con lui tramite il sogno. Nel 1922 Jung ha 47 anni e finalmente riesce a sognarlo. Suo padre viene verso di lui chiedendogli un consulto sul suo lavoro, specialmente nel trattamento di coppie che hanno problemi relazionali. Jung ne fu profondamente impressionato. Poco tempo dopo il sogno morì sua madre inaspettatamente. Jung concluse che suo padre non era stato in grado di risolvere i suoi problemi coniugali quando sua moglie era ancora in vita. Tuttavia quando egli venne a sapere che sua moglie sarebbe morta presto per incontrarlo nuovamente nell’aldilà, aveva riconosciuto la necessità di essere aiutato nel risolvere le difficoltà di quel nuovo incontro. Questa inusuale interpretazione personale, a livello del soggetto, suggerisce ancora una volta un ennesimo orientamento sciamanico nella vita di Jung.

Jung sull’alchimia e lo sciamanismo

Oltre allo sciamanismo Jung credeva anche che l’alchimia, se osservata attraverso le lenti di un’interpretazione simbolico-psicologica, piuttosto che attraverso quelle di una chimica scientifica, dovrebbe essere considerata (al pari dello sciamanismo) un precursore della moderna psicologia dell’inconscio. (Jung si sforzò sempre di trovare gli antecedenti storici delle sue teorie.)

Egli credeva che l’alchimia fosse in effetti la proiezione di un processo simbolico che sorgeva nell’inconscio e l’immaginario prodotto, come peraltro nello sciamanismo, abbondava in temi di trasformazione rituale. Con le varie operazioni magico-chimiche e attraverso le fasi di divisio, solutio, coagulatio, eccetera, l’alchimista cercava di trasformare i metalli in oro. Ciò, sul piano del profondo, in realtà era un’arte mistica piuttosto che scientifica e portava alla proiezione dei contenuti dell’inconscio nella materia. Jung interpretò l’oro, proprio come le pietre sacre quali il cristallo e il lapis-lazuli, come simboli del Sé e i processi di trasformazione chimica della materia diventavano un tipo di trasformazione rituale analoga alla trasformazione interiore che avveniva nella psiche degli stessi alchimisti, così come accade durante il processo di individuazione.

L’alchimista, come lo sciamano, praticava un’arte segreta, sacra ed esoterica. L’alchimista spesso aveva una donna che lo assisteva (la soror mystica) nel suo laboratorio immaginale, come lo sciamano aveva la sua «sposa celeste», e come lo sciamano praticava la sua arte ai margini della società.

Jung credeva che l’alchimia medioevale e rinascimentale, come la moderna psicologia del profondo, sorgesse come tentativo di compensare la unidirezionalità del cristianesimo. Essendo guidata da temi pagani e da un ricco immaginario archetipico, essa cercava di contrastare sul piano psicologico-simbolico con le espressioni dogmatiche e sessuofobiche del Cristianesimo meglio della teologia cristiana di allora e di come il Cristianesimo era stato colto e interpretato. In questo contesto possiamo vedere la profonda svalutazione della terra e del femminile. Jung riteneva inoltre che l’alchimia trattasse meglio il problema degli opposti psichici, cercandone una coniunctio oppositorum, una congiunzione piuttosto che una svalutazione, o una repressione o addirittura una dissociazione. E soprattutto incorporava, quindi integrava sul piano simbolico, piuttosto che reprimerlo l’oscuro, il male, il corpo, il femminile, quindi tutto ciò che era stato rimosso più o meno volontariamente dal cristianesimo. Ma noi ben sappiamo che, come in un percorso carsico, tutto ciò che è rimosso (quindi non risolto o integrato sul piano simbolico) prima o poi fa la sua ricomparsa, ritorna come sintomo. Hillman, riprendendo Jung, usa spesso dire che gli dei (rimossi) ritornano sotto forma di malattia.

La pietra come oggetto sacro

Nel contesto della discussione sul significato alchimistico della pietra filosofale, il lapis lazuli, il cristallo e l’oro come simboli psicologici del Sé archetipico, Jung rivedeva il significato della numinosità che i cristalli avevano per esempio nello sciamanismo e nella mitologia nativo-americana. Jung dice: «Nello sciamanismo molta importanza è attribuita ai cristalli che giocano un ruolo importante nel ministering spirits. Essi vengono dal trono di cristallo dell’Essere Supremo o dalla volta del cielo. Essi mostrano ciò che sta succedendo nel mondo e alle anime del malato ed essi danno anche all’uomo il potere di volare.» (C.G. Jung, CW, 13, p. 132.)

Il potere dei cristalli riesce a canalizzare una conoscenza su ciò che è alterato nel malato, e questa è a sua volta una funzione del potere del Sé archetipico, nella sua capacità di regolatore di tutti i processi psichici, nonché strumento di integrazione e di guarigione. Jung aggiunge che gli attributi della pietra sono quelli usati simbolicamente per rappresentare il Sé archetipico. Questi sono gli attributi dell’«incorruttibilità, permanenza e della divinità.» (ibid., p. 126.)

Il simbolismo dell’albero alchemico e l’albero magico dello sciamano come simbolo del Sé archetipico

L’albero cosmico (albero del mondo) è un altro motivo simbolico comune all’alchimia e allo sciamanismo. La comprensione di Jung del significato dell’albero alchemico era basato almeno in parte sulla comprensione dell’albero cosmico dello sciamano come descritto da Mircea Eliade quale axis mundi, asse del mondo, un centro del mondo che connette le tre zone cosmiche della cosmologia sciamanica. L’albero cosmico è un tipo di passaggio rituale attraverso cui lo sciamano può salire e discendere nel mondo inferiore, nel mondo degli spiriti. Jung enfatizza che il simbolismo dell’ascesa e della discesa è un simbolismo presente in molti motivi onirici dei suoi pazienti. Un grande analista e psichiatra junghiano recentemente scomparso, John Weir Perry, attento studioso delle implicazioni tra immagini mitiche e psicosi, ha descritto e documentato la comparsa del motivo dell’albero cosmico in molte immagini allucinatorie di pazienti schizofrenici. Egli enfatizza che l’emergenza di questa immagine archetipica stabilisce una relazione profonda tra il Sé archetipico (l’immagine del Sé ) da parte dello schizofrenico con il profondo processo trasformativo della sua psiche. Poiché questo tipo di simbolismo dell’albero cosmico è così centrale nella simbologia sciamanica, diventerà piuttosto naturale per Jung interpretarlo come un simbolo del Sé, come unione degli opposti e come mezzo di accesso alla realtà dell’inconscio collettivo (simbolizzato come mondo superiore e come mondo inferiore).

Jung e la visione del mondo sciamanico

Entriamo nelle fasi finali della sua vita, quando il suo mito di guarigione si approfondisce e coinvolge un’esperienza di trascendenza potentissima che lo conduce ad una visione del mondo dall’alto. Durante questo periodo Jung ha diversi e gravi disturbi. All’inizio del 1944 si romperà una gamba e poi avrà un grave infarto cardiaco. Barbara Hannah, analista junghiana, descriverà questo periodo come il più grande passo nella storia del processo di individuazione personale di Jung. Durante la malattia ha un’esperienza visionaria in cui vede se stesso fluttuare sopra la terra e in lontananza vede il globo terrestre, avvolto in una splendida luce azzurrina (il blu alchemico di Hillman) e distingue i continenti e il blu profondo del mare. Ai suoi piedi si trova Ceylon e davanti a lui l’India. Questi sono anni di grande confronto con la cultura orientale. Era come vedere un’intera mappa della terra, un’esperienza simile al «volo sciamanico»:

«La mia visuale non comprendeva tutta la terra, ma la sua forma sferica era completamente visibile e i suoi contorni splendevano di un bagliore argenteo, in quella meravigliosa luce azzurra. In molti punti il globo sembrava colorato o macchiato di verde scuro, come argento ossidato. Sulla sinistra, in fondo, c’era una vasta distesa, il deserto giallo rossastro dell’Arabia… Poi seguiva il Mar Rosso e lontano – come a sinistra in alto su una carta – potevo scorgere anche un lembo del Mediterraneo, oggetto particolare della mia attenzione. Tutto il resto appariva indistinto. Vedevo anche i nevai dell’Himalaya coperti di neve, ma in quella direzione c’era nebbia o nuvole. Non guardai per nulla verso destra. Sapevo di essere sul punto di lasciare la Terra.» (RSR, pp. 344-345.)

Con questa visione Jung completa un’arrampicata celestiale, sciamanica, dell’albero del mondo che aveva iniziato con il primo sogno del fallo sotterraneo. Proprio in questa serie di visioni sperimenterà i segreti più profondi di guarigione, il mistero della guarigione. Ebbe anche un’esperienza visionaria in cui costellò nel suo medico personale la potente immagine del soter (colui che guarisce), associandolo al mitico dio greco della guarigione, Asklepios. Comprese la divina verità di Esculapio, che solamente il medico ferito può guarire. Questa consapevolezza lo toccò profondamente e gli mostrò quanto lo sciamano fosse infatti il guaritore ferito, the wounded healer…

Jung sottolineò il fatto che lo sciamanismo fosse una forma del processo di individuazione: la sua visione di vedere la terra dall’alto era un chiaro esempio di come lo spirito dello sciamano lascia il corpo e va nei «mondi altri» per adempiere la funzione trascendente nel recupero e nella comprensione dei segreti di guarigione per la comunità. In questo caso il mondo sta per la comunità.

La successiva serie di visioni coinvolse il tema della coniunctio alchemica. Queste lo spinsero ad unire alcuni dei miti centrali di guarigione dell’ebraismo, della cristianità e della cultura greca. Tutti questi miti prendevano ispirazione da potenti immagini dello «hierosgamos», il matrimonio sacro:

«Erano le nozze mistiche così come appaiono nelle rappresentazioni della tradizione kabbalistica. […] Io stesso ero nel Pardes rimmonim [titolo di un vecchio trattato kabbalistico], il giardino dei melograni, e avevano luogo le nozze di Tifereth e Malchuth. […] Non so dirvi quanto fosse meraviglioso. […] Non so esattamente che parte vi avessi. Alla fine era me stesso: io ero lo sposalizio!» (RSR, p. 349.)

Più specificatamente, quando Jung scrisse il suo trattato sul transfert sottolineò come al centro del processo di traslazione ci fosse Eros nell’archetipo della coniunctio, la congiunzione alchemica degli opposti. Mai come in questa visione emergevano in modo significativo (RSR, p. 350 sgg) il concetto di individuazione e una visione così obiettiva della realtà. Questa esperienza confermò la sua relazione alla vita ed alla morte.

«Tutte queste esperienze sono meravigliose. Vagavo una notte dopo l’altra in uno stato di purissima beatitudine, “circondato da immagini di tutta la creazione”. Poi gradualmente i vari motivi si mescolavano e impallidivano. […] Nella stanza c’era un pneuma di un’ineffabile santità, la cui manifestazione era il Mysterium Coniunctionis. Non avrei mai pensato che si potesse provare un’esperienza del genere e che fosse possibile una beatitudine duratura. Le mie visioni e le mie esperienze erano effettivamente reali, nulla era soltanto sentito, soggettivo, anzi possedevano tutti i caratteri della assoluta oggettività.» (RSR, pp. 350-351.)

«Da allora in poi non mi sono mai liberato completamente dall’impressione che questa vita sia solo un frammento dell’esistenza che si svolge in un universo tridimensionale disposto a tale scopo. […] Rifuggiamo dalla parola “eterno”, ma posso descrivere la mia esperienza solo come la beatitudine di una condizione non-temporale nella quale presente, passato e futuro sia una cosa sola.» (RSR, p. 351.)

Jung racconta di aver vissuto ancora un’esperienza di una tale obiettività e pregnanza, analoga alle visioni precedenti, dopo la morte della moglie Emma che gli apparve in sogno come in una visione. Appariva con il più bell’abito che avesse mai indossato, giovane, sui trent’anni, con l’espressione «di chi sa e riconosce obiettivamente, senza la minima reazione emotiva, come al di là della nebbia delle passioni. Conteneva il principio della nostra relazione.» (RSR, p. 352.)

«L’oggettività di cui feci esperienza in questo sogno e nelle visioni appartiene a una individuazione compiuta. Rappresenta un affrancamento da ogni valutazione e da tutto ciò che chiamiamo un legame affettivo: in genere gli uomini attribuiscono molta importanza ai legami affettivi, ma questi contengono proiezioni che è necessario respingere per realizzare se stessi e l’oggettività. I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, viziati da costrizioni e mancanza di libertà; si vuole dall’«altro» qualcosa che priva sia lui che noi della libertà. La conoscenza obiettiva sta al di là della relazione affettiva; sembra essere il segreto essenziale. Solo grazie ad essa è possibile la vera coniunctio”. (RSR, pp. 351-352.)

È importante ricordare che solo dopo questa serie di visioni Jung scriverà opere come La psicologia del transfert e Risposta a Giobbe e poi il grandioso Mysterium Coniunctionis.

Conclusioni: Implicazioni per l’analisi moderna e la psicoterapia

Vorrei concludere questa relazione senza eccessive enfasi di sintesi né di completezza. Potremmo far riferimento a tutta una serie di valutazioni sullo sciamanismo postmoderno, sul neosciamanismo, sulla perdita del senso del sacro nelle società industrializzata e secolarizzata, su una diagnosi sciamanistica da parte della cultura occidentale, sul recupero della funzione del mito nei processi di guarigione, sulla guarigione rituale di tutte le c.d. «tecniche del sacro e dell’estasi», sulla rivisitazione dei significati simbolici dello sciamanismo per la moderna psicoterapia, ma in ultima analisi credo sia giusto lasciare ancora una volta la parola allo stesso Jung:

«È decisivo che l’uomo sia orientato verso l’infinito. È il problema essenziale della sua vita. Quanto più un uomo corre dietro ai falsi beni e quanto meno è sensibile a ciò che è essenziale, tanto meno soddisfacente è la sua vita. Si sentirà limitato, perché limitati sono i suoi scopi. Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano.»

«Sia nella mia esperienza di medico che nella mia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare che cosa esso sia. […] Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può parlare di uno senza considerare anche l’altro. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto. Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato. L’amore “soffre ogni cosa” e “sopporta ogni cosa” (I Cor., XIII, 7). Queste parole dicono tutto ciò che c’è da dire; non c’è nulla da aggiungere. Perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime e i mezzi e gli strumenti dell’“amore” cosmogonico. […] L’amore non viene mai meno, sia che parli con la “lingua degli angeli” o che, con esattezza scientifica, tracci la vita della cellula risalendo fino al suo più ultimo fondamento. L’uomo può cercare di dare un nome all’amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni. Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l’ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio.» (C.G. Jung, RSR, pp. 413-414.)

Spiegazione della mia teoria sugli sciamani e I-Ching e differenze rispetto a quella di Jung.

Dagli studi antropologici fatti in tutto il mondo si sa che le antiche tribù di circa 150.000 anni fa erano formate da circa 500-1000 persone. In tutto il mondo era presente la figura dello sciamano come uomo della medicina e altre funzioni distinte da quelle del capo del villaggio.

Fino a poche centinaia di anni fa i capi di qualsiasi esercito hanno interrogato i “successori” (più o meno moderni maghi) degli aruspici etruschi per conoscere in anticipo l’esito della battaglia. Qualche odierno mago della finanza consulta cartomanti o altro prima di prendere decisioni importanti. Si dice che persino l’allenatore di calcio Helenio Herrera facesse altrettanto.

Qui non si discute dei presunti poteri dello sciamano come faceva Jung, si vuole soltanto supporre che la natura abbia introdotto con l’evoluzione la figura irrazionale dello sciamano per controbilanciare la razionalità dell’homo sapiens sapiens.

E’ necessaria la presenza dello sciamano, perché serve a differenziare le risposte della tribù di fronte alla pressione selettiva dovuta agli ostili fenomeni naturali: glaciazioni, predatori, malattie ecc. ecc. Se tutte le tribù avessero risposto allo stesso modo (più razionale) alle difficoltà, probabilmente ci saremmo estinti. Invece l’irrazionalità dello sciamano ha fatto aumentare la variabilità delle risposte alle difficoltà, facendo si che tra tutte le tribù ce ne fosse almeno una che casualmente scegliesse quella giusta. Ci sono prove scientifiche che discendiamo tutti da quell’unica tribù: siamo tutti discendenti da un gruppo di 2000 persone di 144.000 anni fa! .

Quindi non attribuisco alcun potere agli sciamani, se non quello di essere una sofisticata macchina random che fa in modo di dare tutte le risposte possibili alla pressione selettiva, in modo che almeno una tribù possa salvarsi.

“L’effetto collaterale” di questa teoria, se risultasse vera, è che ci sarebbero degli “sciamani inespressi silenti”, presenti intorno a noi, che sono “dormienti” perché la nostra società è cambiata profondamente e non consente il manifestarsi delle loro peculiarità.

Nel sistema immunitario del corpo umano esiste una funzione analoga che ci fa selezionare casualmente la risposta anticorpale contro le infezioni.

Per quello che riguarda l’ I-Ching, ritengo che la sua funzione sia simile: noi cerchiamo sempre di affrontare le difficoltà nel modo più razionale ed è giusto per la maggior parte dei casi. Esistono però delle decisioni meno importanti in cui la decisione è difficile perché il valore delle risposte è alla pari (50% per 2, 33% per 3, 25% per 4 ecc . ecc.). Se si è abili a selezionare quali decisioni appartengono a questa categoria, allora possono essere candidate al sorteggio dell’I-Ching. Si avete capito bene: l’I-Ching come lo sciamano ha il compito di sorteggiare il destino delle nostre decisioni.

Se è facilmente spiegabile l’utilità evoluzionistica dello sciamano per la tribù, non lo è altrettanto il sorteggio delle decisioni per un singolo individuo. Però siccome l’uomo è un animale sociale, il sorteggio della decisione ha il compito di differenziare la risposta dalla massa. Anche le decisioni meno importanti se prese da tutta la massa possono portare dei grossi danni alla società: es. è importante differenziare i pacchetti azionari negli investimenti, è importante aumentare il numero dei produttori per qualsiasi merce per evitare regimi di monopolio, è importante avere marche diverse di farmaci in modo che si evitino eventuali difetti di produzione, è importante non decidere di andare al mare tutti insieme perchè si creano delle code interminabili ecc. ecc.

Anche in questo caso a differenza di quello che diceva Jung, non si attribuisce alcun potere particolare alla divinazione I-Ching, se non quello del sorteggio equo.

Fabio Marinelli – 2009 – 2010 – 2011

Argomenti trattati da Fabio Marinelli ed amici in social network: se si copia l’articolo, farlo integralmente (per non stravolgere il significato fuori dal contesto) e citare l’autore.

Bibliografia: leggere questo bellissimo libro gratuito:

http://www.psychomedia.it/pm-books/merciai/volume.pdf

specialmente da pag. 177 a pag. 245

Le coincidenze sono ben spiegate anche dalla:

“Profezia di Celestino” leggere libro e/o vedere il film

Ottimo blog:

http://www.psicologia-integrale.it/archives/1768

Per quello che riguarda l’ultima parte della teoria (lo scritto in azzurro) vale la licenza sottostante, per il resto del documento citare i rispettivi autori.

Fonte – http://fabiomarinelli.ilcannocchiale.it/


Leave a Comment