TILAK e la “Dimora artica dei Veda”

tilak

(Prefazione estratta dal libro “La Dimora Artica nei Veda”, Edito da ECIG 1994)

Prefazione

Il presente volume segue il mio Orione o ricerche sull’antichità dei Veda, pubblicato nel 1893.

La valutazione dell’antichità dei Veda, generalmente accettata dagli studiosi dei poemi Vedici, era in passato basata arbitrariamente sui periodi di tempo computati sulle diverse categorie in cui sono distinti i testi vedici: si reputava che la più antica di tali categorie non potesse, nel migliore dei casi, risalire a più di 2400 anni a.C. Nel mio Orione, invece, io cercavo di dimostrare come tutte queste valutazioni, oltre ad essere troppo modeste, fossero anche troppo vaghe ed incerte, e come tutti i ragguagli astronomici che si trovano nei testi vedici ci offrano datazioni molto più degne di fede per accertare l’età dei vari periodi della letteratura vedica.

Dimostravo anche che le citazioni astronomiche indicavano con sicurezza che l’equinozio di Primavera aveva avuto luogo nella costellazione di Mriga, ossia Orione, circa 4500 anni a.C., durante il periodo degli Inni vedici, e che esso si spostava verso la costellazione delle Krittica (o Pleiadi), circa nel 2500 a.C., al tempo in cui venivano composti i Brahmana. Naturalmente, dapprima queste conclusioni furono accolte dagli studiosi con un certo scetticismo, ma la mia tesi fu assai rafforzata, quando il dott. Jacobi, di Bonn, giunse alle stesse conclusioni indipendentemente da me, e quando, subito dopo, dotti come i professori Bloomfield, Barth e, da ultimo, il dott. Bulher, più o meno di buon grado, riconobbero la forza dei miei argomenti.


Il dott. Thibuat ed il dott. Whitney più recentemente, e pochi altri ancora, furono dell’opinione che le prove da me adottate non fossero decisive. Ma la scoperta, di poco posteriore, da parte del mio amico S.B Dixit, dell’asserzione, in un passo dello Shatapatha Brahmana, che la Krittika, in quel periodo di tempo, non si erano spostate dall’Oriente, cioè dall’equinozio di Primavera, ha spazzato via ogni restante dubbio sull’età dei Brahmana. Un altro astronomo indù V.B. Kektar, in un recente numero del Giornale di Bombay, che appartiene al ramo della Reale Società Asiatica, ha analizzato per mezzo della Matematica i versi del Taittirya Brahmana (III-1-1-5) trovando che Brihaspati, ossia il pianeta Giove, fu scoperto nel momento in cui avvenne l’eclisse parziale della stella Tishya, dimostrando anche che tale osservazione fu possibile solamente nell’anno 4650 a.C., e confermando così, in modo autorevole, la mia valutazione del più antico periodo della letteratura vedica. Dopo questo, io ritengo che la vetustà del più antico periodo vedico debba essere stabilita senza alcuna possibilità di dubbio.

Ma se l’età del più antico periodo vedico risale al 4500 a.C. ci si può ancora chiedere se, entro questi limiti, abbiamo raggiunto l’Ultima Thule dell’antichità Ariana. Come stabilisce il prof. Bloomfield, citando il mio Orione nel discorso per il 18º anniversario dell’Università “John Hopkins”, “Il linguaggio e la letteratura del veda sono così primordiali, che si devono porre agli inizi reali della vita degli Ariani”, ed osserva giustamente: “Questi, con tutta probabilità e con la dovuta cautela, risalgono a migliaia di anni fa”, aggiungendo “Non è necessario dire che la cortina che sembrava fermarsi al 4500 a.C., debba essere ritenuta solo un velo trasparente”. Io ero già di tal parere ed avevo consacrato molta parte del mio tempo libero alla ricerca di testimonianze che potessero sollevare il velo e rivelarci la grande lontananza dell’antichità primordiale degli Ariani.

Come io abbia lavorato lungo queste direttrici, come, illuminato dalle recenti scoperte della Geologia e dell’Archeologia sulla storia dell’uomo primitivo, io sia stato gradualmente condotto in diversi campi di ricerca, come, infine, sia giunto alla conclusione che gli antenati ancestrali dei Rishi vedici siano vissuti in una patria artica in epoca interglaciale, lo si può comprendere dal mio Orione e le prove accumulate delle testimonianze rinvenute nei Veda e nell’Avesta, mi costrinsero letteralmente ad abbracciare questa teoria. Non v’è bisogno che qui ripeta ancora tutto il cammino compiuto. Desidero, tuttavia, avendone qui l’opportunità, ringraziare l’insigne studioso, prof. Max Mūller, per la generosa simpatia che mi ha dimostrato in un periodo per me assai difficile: la sua recente morte è stata una grave perdita per i suoi numerosi estimatori in tutta l’India. Non è questo il luogo in cui possiamo discutere a fondo i meriti della politica adottata dal governo di Bombay nel 1897. Basti dire che soffocare la ribellione dovuta alla fame ed altre calamità, il governo del tempo giudicò prudente perseguitare alcuni giornali indù della provincia, particolarmente fra tutti il Kesari, da me pubblicato, per gli scritti ritenuti sediziosi: io stesso fui tenuto per diciotto mesi rigorosamente prigioniero. In India i prigionieri politici non sono trattati meglio dei prigionieri comuni e se non fosse stato per la simpatia e l’interesse dimostratomi dal prof. Mūller, che mi conosceva già come autore di Orione, e da altri amici, sarei stato privato del piacere, il solo piacere allora, di proseguire i miei studi in quei giorni. Il prof. Max Mūller ebbe la cortesia di inviarmi una copia della sua seconda edizione del Rig-veda: il governo mi permise di usare il libro, mi permise di usare anche la luce per leggere di notte per alcune ore. Molte pagine sul Rig-Veda, citate a sostegno della teoria artica nelle pagine seguenti, furono scritte durante I piaceri di cui godetti in quel tempo. Grazie agli sforzi del prof. Max Mūller, seguito da tutta la stampa dell’India, fui liberato dopo 12 mesi, e nella lettera che indirizzai al prof. Mūller, dopo la mia liberazione, lo ringraziavo sinceramente per il suo cortese interessamento e gli esponevo un breve riassunto della mia teoria sulla patria primordiale degli Ariani, come le testimonianze dei Veda rivelano. Naturalmente non mi potevo aspettare che uno studioso, che aveva lavorato tutta la vita in un campo diverso, potesse accettare subito la mia nuova teoria, e che leggendo qualche riga, ne prendesse le difese. Ma era già incoraggiante sentire da lui che l’interpretazione da me proposta dei passi vedici poteva risultare verosimile, sebbene in contrasto con i fatti geologici già accertati. Risposi allora scrivendo che avevo già esaminato il problema da questo lato e che attendevo il momento Per potergli presentare di persona tutte le prove a sostegno della mia tesi. Sfortunatamente fui privato di tale piacere dal sopraggiungere della sua morte.


Il primo manoscritto del presente libro fu stesso alla fine del 1898 e da allora ebbi la buona sorte di poter discutere il problema con molti dotti di Madras, Calcutta, Lahore, Benares ed altri luoghi, Durante i miei viaggi nelle diverse parti dell’India. Ma esitai a pubblicare il volume per lungo tempo – ed una parte dell’indugio è dovuta ad altre cause -, perché il campo delle indagini e delle ricerche si era ramificato nelle molte scienze affini, come la Geologia, l’Archeologia, la mitologia comparata e così via: io ero un vero profano in esse e sentivo una certa apprensione per una mia interpretazione corretta delle ultime ricerche di tali scienze.

Queste difficoltà sono perfettamente descritte dal prof. Max Mūller nella sua pubblicazione Prehistoric Antiquities of Indo-Europeans, poi incorporata nel suo volume Last Essays. Il dottissimo professore affermava che “la divisione e la suddivisione di quasi tutti i rami dello scibile umano in studi specialistici rende lo studioso, volente o nolente, sempre più dipendente dal giudizio e dall’aiuto dei suoi collaboratori. Un geologo, oggi, ha spesso problemi che interessano il campo della Mineralogia, della Chimica, dell’Archeologia, della Filologia, piuttosto che della pura e semplice Geologia. E siccome la vita è troppo breve per tutto questo, non gli resta che ricorrere ai suoi colleghi per consiglio ed aiuto. Uno dei grandi vantaggi della vita universitaria consiste, quando uno si trovi in difficoltà per certi problemi, che esorbitano dal dominio delle proprie conoscenze, nel poter ottenere schiarimenti e delucidazioni dai colleghi: molte delle più felici intuizioni o delle più illuminanti soluzioni di complessi problemi sono dovute, come ben si sa, al libero scambio – questo dare e prendere – scientifico nei nostri centri accademici” E ancora: “A meno che uno studioso non ricorra a dotti autorevoli nella materia, non potrà mai fare scoperte brillanti: queste infatti potrebbero essere annullate dal più lieve tocco del dotto specializzato, oppure egli non potrà scoprire fatti che abbiano significato ed importanza. Difficilmente i più sono in grado di rendersi conto dell’utilità che deriva dallo scambio libero e generoso delle idee in ogni ramo della scienza, particolarmente nelle nostre università, ove ognuno può trarre profitto dall’aiuto e dal parere dei propri colleghi, sia che vi avvertano su teorie inaccettabili, sia richiamando la vostra attenzione su un libro o su un articolo che possa interessarvi, perché trattato a fondo”. Ahimè! A noi non è concesso vivere in un simile ambiente e gli studiosi indù ne sarebbero molto meravigliati. In India non esiste una sola istituzione –  e, malgrado la Commissione dell’Università, non possiamo sperare di averne prima che passi molto tempo -, in cui si possono ottenere delucidazioni o schiarimenti sulla materia che interessa, come succede in Occidente. In mancanza, di ciò, la sola possibilità per chi studia e indaga è offerta dalle stesse parole dell’esimio dotto: “Uscire coraggiosamente dalla propria cerchia e farsi un’idea personale degli studi altrui”, anche a rischio di farsi considerare un intruso, un ignoramus, un semplice dilettante, perché: “A qualunque cosa si esponga, gli studi ne trarranno vantaggio”. Pur lavorando con tale svantaggio, fui felice quando sfogliando le pagine delle 10ª edizione dell’Encyclopedia Britannica, ricevuta di recente, trovai che il prof. Geikie, nel suo articolo sulla Geologia, aveva le stesse vedute del dott. Croll e dei suoi calcoli matematici, come dico nel riassunto alla fine del 2º capitolo del libro presente.

Dopo aver preso atto che la dottrina del Croll non aveva séguito tra gli astronomi ed i fisici, l’eminente geologo afferma che essa, in tempi più recenti, è stata esaminata a fondo da E.P. Culverwell che la considera “una speculazione poco fondata, rivestita di precisione numerica severa, ma senza basi in relazione alla scienza fisica e costruita con parti che non compenetrano l’una con l’altra”. Se i calcoli del dott. Croll sono così giudicati, non resta che accettare le teorie dei geologi americani sull’inizio del periodo post-glaciale, databile a non oltre 8000 anni a.C. È già stato posto in chiaro che gli inizi della civiltà ariana devono essere datati a diverse migliaia di anni prima del più antico periodo vedico: se si pone l’inizio dell’epoca post-glaciale a 8000 anni a.C., non ci si deve meravigliare se la datazione della vita Ariana primordiale debba risalire a molte migliaia di anni avanti il 4500 a.C., Che è l’età considerata più antica del periodo vedico. Questo è proprio l’argomento specifico del presente volume. Vi sono molti passi nel Rig-Veda che, sebbene considerati sino ad ora oscuri e poco comprensibili, tuttavia, alla luce delle recenti scoperte scientifiche, rivelano gli attributi polari delle divinità vediche, o le tracce di un antico calendario artico. L’Avesta parla espressamente di una terra felice: l’Airyana Vaejo (o Paradiso Ariano), situato in una regione in cui il Sole splendeva una volta l’anno, regione distrutta dall’invasione dei ghiacci e delle nevi, che resero il clima inclemente tanto da costringere il popolo a migrare verso il sud. Queste affermazioni, chiare ed evidenti, se poste a confronto con le conoscenze sull’epoca glaciale e post-glaciale che le ultime ricerche geologiche ci forniscono, non possono che condurre alla conclusione che la patria primordiale degli Ariani si trovava in ambiente artico ed interglaciale. Mi sono spesso chiesto perché questi fatti, netti e chiari, siano rimasti ignorati per così lungo tempo. Posso assicurare il lettore che, sino a quando non mi convinsi che la scoperta era dovuta solo ai progressi recenti delle nostre conoscenze sulla storia primeva della razza umana e del suo pianeta, non mi avventurai a pubblicare il presente volume. Molti studiosi dello Zend giunsero solo a sfiorare la verità, semplicemente per il fatto che 40 o 50 anni or sono non erano in grado di capire come una terra felice si trovasse nelle regioni artiche, presso il Polo nord. Il progresso della scienza geologica dalla metà alla fine del secolo scorso ha contribuito ad eliminare le difficoltà, provando che il clima al polo nord, durante le epoche interglaciali, fu temperato: in conseguenza, fu clima non sfavorevole alla vita umana. Non v’è dunque, nulla di straordinario se vogliamo scoprire la reale portata dei fatti che sono narrati nei Veda e nell’Avesta. È vero che, se la teoria della patria artica interglaciale e primordiale degli Ariani viene provata, molti capitoli dell’esegesi vedica, della Mitologia comparata, della storia dei primordi degli Ariani dovranno essere revisionati o riscritti.


Nell’ultimo capitolo del presente libro ho discusso un punto importante, che sarà studiato per mezzo della nuova teoria. Ma, come ho posto in luce alla fine del libro, tali considerazioni, per quanto possano essere utili per suggerirci cautela nelle nostre indagini, non devono distoglierci dall’accettare i risultati di un’analisi condotta con metodo rigorosamente scientifico. È certo arduo respingere teorie, cui si è lavorato tutta la vita: ma, come Andrew Lang ha detto, bisogna sempre ricordare che “I nostri piccoli sistemi hanno i giorni contati: a mano a mano che le conoscenze avanzano, passano alla storia come sforzi di pionieri”. Del resto la teoria della patria artica non è così nuova né così stupefacente, come appare a prima vista. Parecchi scienziati hanno affermato che la dimora originaria dell’uomo debba essere localizzata nelle regioni artiche: il dott. Warren, presidente dell’Università di Boston, mi ha, sotto un certo aspetto, preceduto, con il suo dotto e suggestivo libro Paradise Found or the Cradle of the Human Race at the North Pole, nel quale nel 1893 fu pubblicata in America la decima edizione. Anche nel campo strettamente filologico la teoria della dimora primordiale degli Ariani nell’Asia centrale è stata abbandonata quasi del tutto in favore di quella nella Germania settentrionale o Scandinavia. A sua volta il prof. Rhys nelle sue Hibbert lectures sul paganesimo celtico, suggerisce “alcuni luoghi entro il Circolo Polare Artico”, in seguito a considerazioni esclusivamente mitologiche. Io faccio un passo avanti e dimostro che la teoria sulla patria primordiale degli Ariani viene confermata pienamente dalle tradizioni vediche ed avestiche e, cosa ancora più importante, dimostro che i risultati delle ricerche più recenti nel campo della Geologia non sono suffragati dalle descrizioni dell’Avesta sulla distruzione del Paradiso degli Ariani, ma ci rendono possibile situare l’esistenza di questo in tempi precedenti l’ultima glaciazione. Le prove su cui mi baso sono ampiamente riportate nelle pagine seguenti. Sebbene il problema sia studiato per la prima volta in relazione agli studi vedici ed avestici io credo che i miei critici non mi condanneranno, ma daranno il loro giudizio non su un argomento od un passo singolarmente considerati, cosa che non può mai essere determinante, ma sull’insieme di tutte le prove raccolte in questo libro, quale che sia la portata di tale teoria.

In conclusione, desidero esprimere i miei ringraziamenti al mio Maestro ed amico, il prof. S.G. Jinsivale M.A., il quale, con grande cura, revisionò l’intero manoscritto, all’infuori dell’ultimo capitolo, che fu aggiunto in seguito, e verificò tutti i riferimenti, eliminando alcune imperfezioni e porgendomi alcuni suggerimenti preziosi. Devo anche ringraziare per l’aiuto datomi, ogni volta che ne ebbi bisogno, il dott. Ramkrishna Gopal Bhandarkar C.I.E. ed il Khan Bahadur, dott. Dastur Hoshang Jamaspji, Alto Sacerdote dei Parsi nel Daccan. Mi sarebbe stato davvero impossibile analizzare così profondamente i passi dell’Avesta senza la generosa cooperazione del dotto Alto Sacerdote e del suo aiutante, Dupty Dastur, Kaikobad. Sono anche obbligato verso il prof. M. Rangacharya M.A., di Madras, con cui ebbi agio di discutere questi argomenti e che mi diede suggerimenti preziosi: verso Mr. Shrinivas Iyengar B.A.B.L., dell’Alta Corte di Madras, per la traduzione del saggio Lignana: vero Mr. G.R. Gogte, B.A.L.L.B., per la preparazione del manoscritto, in vista della pubblicazione, e verso il mio amico, signor K.G. Oka, che mi aiutò nella lettura delle bozze di stampa, in cui eliminò parecchi errori che erano sfuggiti alla mia attenzione. I miei ringraziamenti sono anche dovuti al Direttore dell’Anadashrama e del Fergusson College per la libertà di accesso alle loro biblioteche: al Direttore dell’Arya-Bhushana Press per la cura nella stampa del volume. Non è necessario aggiungere che io sono il solo responsabile delle teorie espresse in questo libro. Quando pubblicai il mio Orione non pensavo che avrei proseguito le ricerche nel campo dei Veda e della loro antichità: ma è piaciuto alla Provvidenza di darmi la forza necessaria, tra angosce e difficoltà d’ogni genere, Per compiere questo lavoro è, ricordandole, concludo con le parole della ben nota formula di consacrazione:

OM, TAT SAT BRAHMA PARNAMATSU!

OM, TUTTO QUESTO A BRAHMA È DEDICATO!

Poona, marzo 1903

Bâl Gangâdhar Tilak


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