Sheldrake: in laboratorio ora voglio la rivoluzione

“La mia lotta ai 10 dogmi che acceccano la ricerca”

Il biologo ottocentesco Thomas Henry Huxley, universalmente noto come il «mastino di Darwin» per l’appassionata difesa dell’evoluzionismo, è passato alla storia anche per una frase fortunata: «E’ il destino delle nuove verità cominciare come eresie e finire come superstizioni». E’ questo il punto da cui è partito un altro biologo britannico, Rupert Sheldrake, celebre tanto per gli studi sull’invecchiamento cellulare quanto per le provocazioni sperimentali e teoriche, in nome di una ricerca libera e coraggiosa, dalle indagini sulla telepatia degli animali fino alla teoria dei «campi morfici». E infatti il suo nuovo saggio edito da Urra si chiama «Le illusioni della scienza», un titolo che nell’originale suona ancora più esplicito: «The science delusion».

 

Laureato a Cambridge e Harvard e già membro della Royal Society, considerato uno degli evoluzionisti più brillanti della sua generazione, autore di 80 «papers» e vincitore del prestigioso «University Botany Prize», l’oggi settantenne Sheldrake non ha remore a dichiararsi deluso dai 10 assunti a cui i colleghi di ogni latitudine si ostinano – accusa lui – a credere ciecamente, stando attenti a non evocare mai l’esercizio del dubbio che ha forgiato i trionfi del metodo scientifico. Così ha scritto 300 pagine appassionate per chiedersi, tra le altre cose, se davvero ogni fenomeno sia unicamente meccanico, se la somma di materia ed energia sia sempre la stessa, se le leggi di natura siano immutabili, se la coscienza non sia altro che un’attività della mente. Inoltrandosi in questo labirinto concettuale e sperimentale, Sheldrake sostiene che la scienza del XXI secolo è diventata una cattedrale del dogmatismo, sempre meno adatta a indagare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.


Professore, il suo progetto di rifondare la scienza è più che ambizioso. Per qualcuno addirittura velleitario. Ma del decalogo materialistico che lei denuncia qual è il punto più debole?

«Penso che di talloni d’Achille il materialismo ne abbia proprio 10! Non uno solo. Ma il più ovvio è il fallimento nel capire la coscienza. L’assunto-base è che la materia sia l’unica realtà. Perciò la coscienza dev’essere un suo prodotto o un suo aspetto. Significa che la mente non è altro che l’attività del cervello. I filosofi della mente del XX secolo hanno fatto sforzi enormi per provare che la coscienza non esiste e che è un’illusione o un epifenomeno. Ma sono approcci poco convincenti».

Quali sono le sue controdeduzioni?

«Definire la coscienza come un’illusione non la spiega, ma la presuppone, dato che l’illusione è una forma della coscienza stessa. E sostenere che sia nient’altro che il risultato di cause fisiche e chimiche, insieme con eventi casuali, fa del sistema di pensiero dei materialisti il prodotto della loro stessa attività cerebrale, su cui non hanno controllo cosciente. In altre parole devono credere nel materialismo, visto che il cervello li obbliga a farlo. Ecco perché un simile sistema di pensiero è auto-contradditorio: chiunque ci creda deve anche credere che la sua convinzione sia l’inevitabile conseguenza dell’attività del cervello e non una questione di scelta».


Mentre boccia il materialismo, lei fa discutere per la teoria della «risonanza morfica», secondo la quale ogni specie e ogni individuo attinge a una memoria collettiva e, così facendo, contribuisce allo sviluppo della propria progenie: può spiegare di che si tratta a un non addetto ai lavori?

«La risonanza morfica non è ristretta alla biologia. E’ un principio generale di memoria che, secondo la mia ipotesi, opera ovunque nella natura. Si applica anche ai sistemi fisici, come le molecole e i cristalli. E suggerisce che le cosiddette “leggi di natura” siano simili a consuetudini e che l’intero processo dell’evoluzione sia in realtà un’interazione tra creatività e consuetudini stesse».

Se questa è la teoria, quali sono le prove che il suo nuovo paradigma esista e funzioni?

«Ci sono prove dell’esistenza della risonanza morfica in chimica, biologia e psicologia. In chimica la teoria prevede che gli elementi si cristallizzino tanto più facilmente quanto più sono diffusi. La teoria prevede anche che i punti di fusione delle nuove sostanze si alzino, mentre i loro campi morfici diventano più forti. E ci sono evidenze che succeda proprio questo».


E in biologia?

«Dai test con i moscerini della frutta si è osservato che quanto più spesso si sviluppano in modo anormale tanto più probabili diventano queste trasformazioni anomale. Studiando il comportamento animale, per esempio, si vede che, quando i topolini vengono addestrati per imparare una nuova azione in un luogo specifico, possono poi assorbirla anche altrove e con maggiore facilità. Lo si è notato in una lunga serie di test a Harvard, Edinburgo e Melbourne».

E in psicologia?

«Qui la teoria prevede che per gli individui debba essere più facile imparare “cose” che altri hanno già fatto. Nel XX secolo i punteggi medi del quoziente di intelligenza sono saliti di oltre il 30% in tutto il mondo. Il fenomeno è noto come “Flynn Effect”: ritengo che confermi la risonanza morfica, perché gli individui non sono diventati più intelligenti, ma, semplicemente, dimostrano più facilità nell’eseguire i test. E’ proprio ciò che ci si dovrebbe aspettare sulla base della risonanza morfica».

C’è una ricerca che, secondo lei, può essere considerata come il punto di inizio del nuovo pensiero scientifico che trascende i confini del materialismo?

«C’è un libro scritto di recente dal filosofo americano Thomas Nagel, “Mind and cosmos: why the materialist neo-Darwinian conception of nature is almost certainly false”: dimostra che la concezione materialistica è incompatibile con l’esistenza di una mente consapevole e che conduce a una comprensione distorta dell’evoluzione. Invoca quindi il ritorno alla teleologia nel pensiero scientifico, in particolare l’accettazione del ruolo del fine e dello scopo, tutti elementi che sono stati banditi dalla ricerca già a partire dal XVII secolo. Considero questo saggio complementare al mio libro, che discute non solo concetti filosofici, ma anche i passi concreti e gli esperimenti che potrebbero condurre le scienze verso nuove direzioni».

Lei si considera un eretico? E che rapporti ha con i colleghi biologi?

«Mi considero uno scienziato che fa ricerca e raccoglie prove secondo i principi scientifici. Vedo, tuttavia, che molti miei colleghi sono prigionieri delle pressioni sociali e dell’inerzia istituzionale. In pubblico, per loro, è difficile esprimere idee non convenzionali. In privato, però, sono spesso più aperti. Ecco perché ho rapporti di amicizia con molti scienziati, i quali dimostrano un interesse crescente per le mie idee. Ma considerano più sicuro parlarne in privato piuttosto che in pubblico».

 

Fonte – La Stampa, art. di Gabriele Bccaria, 30 gennaio 2013

Attachment

Leave a Comment