Roberto Calasso e il Veda, il potere dell’Invisibile

 

 

 

 

Intervista con lo scrittore che ha appena pubblicato “L’Ardore”, libro dedicato a questa civiltà scomparsa.
Un fenomeno unico nella storia. Non restano edifici né altri reperti, solo testi tramandati oralmente. L’esperienza di quegli uomini si basava tutta sulla mente e sulla coscienza.

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La storia può cominciare così. Più di tremila anni fa, nel Nord dell’India, ci fu una civiltà molto evoluta che non lasciò tracce, se non attraverso una imponente quantità di testi, trasmessi oralmente. Era un mondo chiuso, incline all’isolamento e autosufficiente. Governato da veggenti e difeso da guerrieri. I veggenti e i guerrieri rappresentavano l’ordine nelle due forme che avremmo, in seguito, ritrovato nella storia dell’umanità: auctoritas e potestas. Quello di cui parliamo era il regno vedico. Somigliava a un mondo onirico, abitato da presenze impalpabili e sorretto da un sapere che tutto implicava.
Il “sapere” era il Veda. Nessuna religione che conosciamo è lontanamente paragonabile al Veda, i cui tratti andavano oltre il culto e il mito, per avvolgere ogni cosa, ogni gesto, ogni apparenza. Tutto in quel regno risuonava della sua presenza e gli uomini ne facevano parte, come ogni cosa. Un “sapere” universale irrorava ogni aspetto della vita. Ma non era una civiltà materiale, bensì una civiltà della mente. E gli uomini che l’abitarono fecero l’esperienza di che cosa fosse la pratica di un pensiero estremo, di un mondo fondato più sulla mente che sul visibile. Poi tutto sparì, inghiottito da quell’ignoto che gli uomini vedici tenevano in gran conto. Ma quella storia ogni tanto rispunta nelle vicende successive, nei mondi e nelle civiltà che verranno dopo, fino a lambire il nostro e talvolta a entrarci dentro come un ammonimento.

È questo mondo remoto che il nuovo libro di Roberto Calasso – L’ardore (Adelphi, pagg. 529, euro 35) – rievoca e racconta con suggestiva e vertiginosa precisione. Come leggerlo? I punti di riferimento più diretti sono Ka, apparso nel 1996, ma soprattutto La rovina di Kasch del 1983, dove l’India vedica e il moderno – l’”innominabile attuale” come lo definisce Calasso – sono legati da continui rimandi e connessioni segrete. L’ardore si compone di ventuno capitoli e di una conclusione. Oltre all’India, troviamo la Grecia di Socrate, la Bibbia e in particolare la storia dopo il diluvio, la Nuova Zelanda in un’analisi di Tiki, una divinità Maori che, come spiegò Marcel Mauss, mostrava sorprendenti corrispondenze con l’India vedica. Il libro si conclude con un confronto molto esplicito tra il mondo attuale e quello vedico. È come se Calasso abbia avvertito il bisogno di un’analisi frontale che ci coinvolge tutti, in prima persona. Non è casuale che egli definisca la lettura di quei remoti testi sacri «un contravveleno potente all’esistenza attuale».

Che cosa quel mondo è in grado di insegnarci?
«La civiltà vedica non resse all’urto del tempo. Si disgregò, scomparve. Eppure quel che resta ha una forza tale da scuotere ogni mente che non sia del tutto asservita a ciò che la circonda».

Lei scrive che ben poco di tangibile rimane dell’epoca vedica.
«Tranne i testi, non ci resta quasi nulla di quel mondo. Non sussistono edifici, né rovine, né simulacri. È una civiltà dell’invisibile, aniconica, ma non perché ci fosse una proibizione sull’immagine, come accadde nella storia occidentale. Lì, tutto parlava attraverso le immagini. Solo che quelle immagini abitavano e dominavano la mente. Se si legge il Rigveda, si vede che è un’immensa catena di immagini».

Una civiltà che non conserva nulla, che elimina ciò che usa e non lascia tracce materiali. Perché?
«Non è stata la deperibilità delle cose, legate all’usura del tempo, a inghiottire quel mondo. Altre civiltà altrettanto antiche, come quelle dell’Egitto e della Mesopotamia, hanno conservato una enorme mole di reperti utili per capirle. Da questo punto di vista, il regno vedico è un cuneo conficcato in mezzo ad altre grandi teocrazie. Non si appaga dell’espansione, della potenza, della conquista. Che sono poi gli aspetti per noi più familiari. Il perno su cui ruota quel mondo è la mente, ciò che loro chiamano manas e che in primo luogo implica il puro fatto di essere coscienti».

Ma è una coscienza che poggia su qualcos’altro, sul “soma”, una pianta inebriante.

«Una pianta probabilmente allucinogena, di cui si sa pochissimo, che determina uno stato della coscienza, attorno al quale ruotavano innumerevoli atti rituali. Il passaggio del soma dal cielo alla terra è l’episodio che si pone all’origine della foltissima mitologia vedica. La liturgia mirava a raggiungere l’ebbrezza – e si riteneva che soltanto l’ebbrezza avesse il potere di attirare gli dèi sulla terra».


Qualcosa di analogo conobbero i greci con la possessione.
«Con una differenza fondamentale: Dioniso rappresenta un elemento sconvolgente all’interno di un assetto già dato. Nell’India vedica l’ebbrezza è l’assetto stesso. Non c’è qualcosa che irrompe. Il soma è il fondamento. Gli uomini vedici volevano pensare e volevano vivere soltanto in certi stati della coscienza. E questo illumina anche la loro ossessione verso la liturgia».

Perché al potere, nelle sue forme tradizionali, gli uomini vedici preferirono l’ebbrezza?
«Anteponevano la conoscenza alla potenza. E la conoscenza andava insieme con una certa specie di ebbrezza. Non costruirono città, non immaginarono la società come centro del cosmo, non crearono un¿amministrazione capillare. Ignorarono ogni preoccupazione di lasciare cronache e annali. Ai loro occhi edificare templi o palazzi rappresentava più un ostacolo che un raggiungimento».

L’immagine che lei offre di questa civiltà è molto diversa da quella farneticante che alcuni studiosi ne hanno dato. Come replica?
«Se uno si avvicina ai testi vedici ha due vie: o prende quello che legge come un delirio, una delle tante aberrazioni dell’umanità; o è obbligato a riconoscere che quei testi dicono cose fondamentali su temi che saranno sempre inevitabili».

Quali sarebbero queste cose fondamentali?
«Già quelle di cui siamo testimoni lei e io in questo momento: essere vivi e coscienti. Ad esempio, quell’atto fondamentale che è respirare significa che non siamo esseri autosufficienti, ma che dipendiamo ogni secondo dall’aria che prendiamo dall’esterno e che emettiamo. Lo Yoga, fra l’altro, è fondato su questo principio».

Sono aspetti che la cultura occidentale ha spesso riproposto in modo superficiale.
«È una delle tante penose contraffazioni che ci circondano. Viviamo in un mondo di contraffazioni. Il gran parlare che oggi si fa di spiritualità, in particolare se riferito all’India, produce spesso effetti comici. “Spiritualità” è una parola che non ha nessun equivalente in sanscrito. Il vero contributo dell’Occidente al mondo indiano è stata la filologia: il lavoro dei grandi indologi che, a partire dall’Ottocento, hanno svolto un’opera immane e solitaria di scavo su quei testi».

A proposito di parole, lei ha scelto come titolo del suo libro: L’ardore. Che cosa è che arde?
«Ardore è la traduzione di tapas, parola che a lungo è stata tradotta in modi svianti (“austerities”, “ascesi”, “mortificazione”). In realtà il tapas è affine al tepor, è qualcosa che brucia. In definitiva è l’approssimazione maggiore al sentimento di essere vivi. Per sapere occorre ardere, praticare l’”ardore”. Il tapas è per gli uomini vedici l’origine stessa non solo del pensiero ma del mondo. Se non c’è questa strana entità che arde, e che è innanzitutto la mente, non c’è il pensiero – e non c’è vita».

Un pensiero intriso di paradossi e di enigmi. Che relazione c’è con il mondo greco?

«C’è una convergenza, ma il modo di manifestarsi è ben distinto. Nel mondo greco l’enigma è una scoperta dei sapienti. Mentre in quello vedico l’enigma sta a fondamento del rituale. Senza l’enigma non si capirebbe il senso del sacrificio vedico, che era anche un torneo speculativo, dove si rischiava la vita. Il brahmodya, ossia la disputa per enigmi sul brahman, lasciava sempre aperta la possibilità che a uno dei disputanti scoppiasse la testa. E poteva avvenire per due motivi: o perché il disputante non aveva saputo rispondere all’enigma o perché aveva posto un quesito di troppo».

Nel libro si parla di un pensiero estremo. Ma come si porrebbe questo pensiero rispetto a oggi?

«Nell’ultima parte del libro racconto qualcosa della improbabile collisione fra il pensiero vedico e quello corrente oggi. Non credo che il risultato andrebbe a nostro favore. Anche se oggi gli scienziati parlano continuamente di “coscienza” (termine che trascuravano sino a qualche decennio fa), se dovessi suggerire che cosa leggere sul tema penserei alle Upanishad e non a qualche trattato di neuroscienza. Capire qualcosa di quegli antichi testi sarebbe una scossa salutare. Toglierebbe l’illusione che le opinioni oggi dominanti rappresentino uno stadio particolarmente evoluto del pensiero. Quanto ai testi vedici, la loro forza è constatabile anche per il fatto che, pur in mancanza di un corrispettivo politico, hanno innervato la vita dell’India fino a oggi».

L’”oggi” ai suoi occhi è segnato come lei dice da “l’innominabile attuale”, vuole esplicitare questa espressione?
«Da circa trent’anni mi propongo di esplicitarla in un libro. Ma non ci sono ancora arrivato. Ci sono epoche che sfuggono tenacemente alla parola. Stendhal o Balzac sapevano parlare con mirabile efficacia e precisione del mondo che li circondava. Oggi non mi sembra che qualcuno riesca a fare qualcosa di simile».


Fonte – ilmiolibro

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