Modificando il nostro cervello, modifichiamo noi stessi

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Il Neuroscienziato Richard Davidson ritiene che la comprensione della neurobiologia delle emozioni può aiutare tutti noi a sviluppare lo ‘stile emozionale’ più adeguato per migliorare la nostra vita.

Richard Davidson, inizia la sua giornata con 45 minuti di meditazione, da quando ha visitato l’India e lo Sri Lanka da studente verso la metà degli anni ‘70. Questa pratica lo calma e gli permette di superare lo stress legato alla professione.
Nel suo nuovo libro “La vita emotiva del cervello,” Davidson spiega perché la meditazione e le altre pratiche similari possono aiutare le persone a migliorare la gestione delle proprie emozioni, per condurre una vita più produttiva e felice.
Davidson, professore di psicologia presso l’Università del Wisconsin-Madison, ha trascorso quasi 40 anni a studiare il funzionamento cerebrale alla base delle emozioni. Nel suo libro, descrive, su base empirica, sei “stili emozionali”.
Secondo Davidson, la plasticità del cervello permette alle pratiche come la meditazione e la terapia cognitivo-comportamentale di cambiare lo stile emozionale delle persone.

Com’è cambiata la comprensione delle emozioni da parte degli psicologi nel corso di questi anni di ricerca?

A metà degli anni 1970, c’era pochissima ricerca sulle emozioni. Gli psicologi cognitivi in quegli anni consideravano l’emozione solo come qualcosa che interrompe la cognizione. 
L’idea che le emozioni siano adattative, che possano svolgere un ruolo importante nel processo decisionale ed influenzare il comportamento, è emersa molto più tardi.
L’idea che la corteccia sia coinvolta nelle emozioni era davvero un’eresia, perché il focus nel campo delle neuroscienze era esclusivamente basato sul ruolo del tronco encefalico.
L’emozione era considerata un processo psicologico primitivo.


Cosa ha portato a pensare che l’emozione possa essere legata alla corteccia cerebrale e non solo al tronco encefalico?

C’erano due filoni di prove. Un filone era una serie di ricerche effettuate su pazienti cerebrolesi, che indicavano chiaramente che il danno corticale portava all’interruzione delle emozioni.
L’altro era semplicemente legato alle mie osservazioni. Essendo uno studioso del comportamento, era molto chiaro per me che quando ci impegniamo a prendere decisioni complesse  (es. “Desidero che questa persona sia il mio compagno?”, “Devo andare a questa scuola di specializzazione?”, “Devo fare o meno questo acquisto importante? “) non ci troviamo di fronte ad un freddo calcolo cognitivo. Le decisioni complesse richiedono l’implicazione delle nostre emozioni.

Nel suo libro si parla di sei “stili emozionali”. Quali sono questi sei stili, e come li ha individuati?

I sei stili emotivi sono emersi nel corso di 30 anni di ricerca neuroscientifica.

Il primo stile è quello che io chiamo la resilienza. Esso si riferisce a quanto lentamente o velocemente siamo in grado di affrontare le avversità. Alcune persone impiegano molto tempo per riprendersi da circostanze difficili, mentre altre sono in grado di recuperare molto rapidamente.

Il secondo stile emotivo è l’ outlook. Questo si riferisce alla durata di un’emozione positiva. E’associato con la propensione a vedere il mondo in positivo o meno.

Il terzo stile è l’intuizione sociale. Ciò si riferisce alla capacità di decodificare le emozioni degli altri.


La quarta dimensione è quella che io chiamo consapevolezza di sé,  si riferisce alla precisione con cui si decodificano i segnali corporei interni associati alle emozioni, come la frequenza cardiaca, la sudorazione e la tensione muscolare.
Alcune persone sono molto sensibili a ciò che accade dentro di sé, altre meno.

La quinta dimensione è il contesto. Intendo la sensibilità al contesto. Alcune persone modulano le loro risposte emotive in modi appropriati al contesto (per esempio, parlano con i loro coniugi in modo diverso da come parlano con il loro capo). Altre persone fanno meno distinzione tra contesti.

L’ultimo stile emotivo è l’attenzione, che in genere non è pensata come un componente emotiva. Ma l’attenzione e le emozioni sono invece molto legate tra loro.

Nel libro descrivo i circuiti cerebrali sottostanti che supportano questi stili e ho anche evidenziato alcuni esperimenti fondamentali che hanno portato alla formulazione di ciascuno di essi.

Ci può fare un esempio?

Certo. La resilienza ad esempio. – Tutti noi prima o poi nella vita ci troviamo a dover affrontare delle avversità. E la resistenza ad esse è molto importante nel processo che porta o meno alla psicopatologia, in particolare per quanto riguarda i disturbi dell’umore e d’ansia.
Essere in grado di recuperare in fretta è un elemento essenziale.
Gli esperimenti che ci hanno portato alla concettualizzazione di questo stile sono iniziati presto nella mia carriera. In questi studi abbiamo confermato che le persone differiscono tra loro in quanto in alcune l’emisfero sinistro è attivo più del destro, e queste differenze sono stabili nel tempo.
Si è scoperto che le persone con una maggiore attivazione dell’emisfero sinistro recuperano più rapidamente se sottoposte a stimoli affettivi negativi somministrati in laboratorio.

Pensa di aver identificato tutti gli stili emotivi, o potrebbero esisterne altri?

Non considero questi sei stili emotivi come definitivi. E’ molto importante sottolineare che si tratta di un’ipotesi, basata sulle ricerche svolte. Ma la scienza non è mai statica ed i nostri modelli sono sempre in evoluzione. Sono sicuro che tra 10 anni la penseremo diversamente, almeno in parte.


E’ importante aggiungere che uno stile non è migliore di un altro. Cambia da persona a persona ed in base all’ambiente in cui si vive. Alcune persone, ad esempio, possono avere un’ intuizione sociale molto scarsa e possono non essere molto brave a decodificare i segnali non verbali delle emozioni, ma allo stesso tempo sono molto adatte a lavorare con le macchine, ad esempio possono essere dei programmatori di successo, che preferiscono non trascorrere troppo tempo in giro con gli altri. Abbiamo bisogno anche di persone del genere nella nostra società.

Sembrerebbe però che alcuni stili possano rendere la vita più difficile, ad esempio se la capacità di recupero di fronte alle avversità è molto bassa. Come fanno le persone a capire se il loro stile emotivo è adeguato o meno?

Bella domanda. Credo che in casi estremi, una persona se ne renda conto. Ad esempio, se le persone non sono in grado di far fronte alle difficoltà della vita quotidiana, allora molto probabilmente sanno che, qualunque stile emotivo stiano utilizzando, non sia quello ottimale.

Nel mezzo ci sono probabilmente molte persone non consapevoli del loro stile emotivo.
Infatti uno scopo importante del libro è proprio aiutare le persone a diventare più consapevoli, perché la consapevolezza è primo step per promuovere il cambiamento.

Gli stili emotivi dunque possono cambiare. In che modo?

Uno dei miei messaggi fondamentali è che gli stili emotivi sono basati su circuiti cerebrali specifici. E poiché sappiamo che il cervello presenta una certa plasticità, i nostri stili possono essere modificati attraverso quelli che io chiamo interventi comportamentali neuro ispirati. In realtà ci sono pratiche sviluppate migliaia di anni fa, che risultano essere molto utili allo scopo, e provengono dalle tradizioni meditative.

Sono stato molto influenzato da queste. Nel libro parlo del mio primo incontro con il Dalai Lama nel 1992, che ha svolto un ruolo fondamentale nella mia carriera, sia professionalmente che personalmente.
I suoi metodi sono molto semplici e possono essere insegnati, in modo del tutto laico, per trasformare la mente e cambiare il cervello e, di conseguenza, possono modificare anche gli stili emotivi.
Ad esempio, un metodo di meditazione molto popolare è chiamato meditazione di consapevolezza. Questo metodo insegna alle persone a prestare attenzione senza giudicare.

La caratteristica di non essere giudicante è molto importante, perché nelle interazioni emotive – in particolare in quelle negative- si presta attenzione giudicando, e tali giudizi conducono alla ruminazione mentale.
Ad esempio, se si litiga con qualcuno di mattina, alcune persone tendono a riprodurre mentalmente la discussione avvenuta durante tutta la giornata. E ciò ha un effetto deleterio sul nostro umore e sul nostro comportamento per molte ore dopo l’accaduto.
L’attenzione non giudicante permette un recupero più rapido di fronte alle avversità. Una recente ricerca sta mostrando proprio questo.

La pratica della meditazione in che modo ha influenzato il suo lavoro e il tuo stile emotivo?

L’ho usata per essere più calmo. Non che io sia mai stato irascibile, ma sicuramente a volte sono stato visibilmente arrabbiato. E direi che la frequenza di questo tipo di comportamento è drasticamente cambiata negli ultimi 10 anni in particolare. Ecco, questo è un comportamento molto concreto.

Dal punto di vista di un osservatore esterno, conduco una vita molto stressante. Viaggio molto, lavoro molte ore e in un settore molto competitivo: devo ottenere borse di studio, fare molte pubblicazioni, dirigere un laboratorio, con il rispetto di scadenze incessanti. E per la maggior parte del tempo lo faccio abbastanza tranquillamente – anche se non perfettamente e ci sono sempre enormi aree di miglioramento. Ma non credo che avrei potuto fare quello che faccio, nel modo in cui lo faccio, senza la pratica di mediazione quotidiana.
Devo anche aggiungere che la parola “meditazione” in sanscrito viene dalla parola “familiarizzazione”.


E in base a tale definizione, la meditazione è in realtà familiarizzare con la propria mente. Mi spingerei fino a dire per uno studioso della mente, per uno psicologo, sarebbe molto utile fare meditazione, perché è una pratica che permette di acquisire maggiore familiarità con la propria mente e penso che questo possa aiutare a svolgere meglio la professione di psicologo.

Articolo di Lea Winerman, tratto da American Psychological Association e OPSonline

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