INDIA – L’invasione Ariana, un falso storico
di Enrico Baccarini© – La redazione dei Veda, fino a poco più di un decennio fa, era attribuita alla cultura degli ‘Ari‘, mentre la loro compilazione veniva arbitrariamente fissata al 1200 a.C. La teoria dell’invasione ariana nacque agli inizi del XIX secolo quando numerosi studiosi occidentali iniziarono a rilevare come il sanscrito classico e i suoi parenti moderni nell’India settentrionale quali hindi, bengali, punjabi, gujerati e sindhi, possedessero affinità molto strette con le antiche lingue europee quali latino, greco, inglese, norvegese e tedesco. La domanda naturale fu come si fosse potuta verificare la diffusione di quella che divenne nota come la famiglia linguistica ‘indoeuropea’.
Iniziò così a prendere forma una teoria piuttosto prevedibile, grazie soprattutto all’opera del tedesco Max Muller, basata sulla logica ma non necessariamente attinente ai fatti per come si erano realmente svolti.
L’ipotesi originale era stata formulata però dall’abate Dubuois[1], un sacerdote evangelista francese degli inizi del XIX secolo che aveva vissuto per lunghi anni in India. Nel suo testo Hindu Manners, Customs and Ceremonies propose l’ipotesi della migrazione di un popolo proveniente dall’Asia centrale verso il subcontinente indiano in ragione di convergenze linguistiche identificate durante la sua permanenza in questi stessi luoghi.
La sua tesi venne ripresa da Max Muller che la ampliò trasformandola nella ben nota teoria “dell’invasione ariana”.
Venne così creata a tavolino una razza madre denominata Ariana ed identificata come la popolazione che avrebbe dato origine alle diverse lingue della famiglia indoeuropea.
Secondo la versione ufficiale, accettata fino a pochi decenni fa, questo popolo sarebbe emigrato dalle terre del Caucaso, per invadere il subcontinente indiano, verso il 1500 a.C.
Se un’ipotesi può nascere genuinamente da convergenze di elementi affini e coincidenti, in questo caso i fattori che rafforzarono e accreditarono tali congetture si originarono anche e in funzione di specifiche dottrine culturali e sociali presenti nel ‘mondo occidentale’ di quel preciso periodo storico, ideologie che tendevano a legittimare e decretare una supposta superiorità intellettuale e morale della cultura europea.
La razza Ariana divenne così una ‘evidenza’ inevitabile e scontata per la maggior parte degli studiosi del diciannovesimo secolo, quindi dell’epoca successiva.
La scoperta della famiglia linguistica indoeuropea costituì la prova tangibile di un retaggio ancora più antico, la conferma di una supremazia europea che solo gli archeologi avrebbero potuto portare alla luce.
Gli Arii, o indoeuropei, si trasformarono quindi nella civiltà che dal mito delle leggende acquisì gli onori della storia; uomini che erano stati in grado di conquistare vasti territori, dal golfo del Bengala alle estreme isole scandinave al Regno Unito, non potevano essere stati altro che gli antenati legittimi degli Europei!
È su questo sfondo ideologico di ineguagliata eccellenza, connesso con un travisamento dei riferimenti al popolo degli Arii presenti nel RigVeda, che la dottrina dell’invasione ariana dell’India nacque e acquisì un credito universale quale avvenimento occorso in un preciso momento della storia e come movimento di massa di popoli da una ‘patria’ europea all’India.
La versione originale di tale scenario, rimasta ampiamente accettata fino a tutto il XX secolo, si spingeva ben oltre. Si sostenne che l’India, in precedenza abitata esclusivamente da tribù dravidiche e indigene dalla pelle scura, sarebbe stata invasa dal nord-ovest verso il II millennio a.C. attraverso i passi dell’Afghanistan e le terre pakistane da una razza europea dalla pelle chiara e con gli occhi azzurri.
Gli invasori nomadi, in sella ai loro cavalli, dotati di armi di ferro e per mezzo di veloci cocchi da guerra avrebbero chiamato se stessi ‘Arii’, cioè nobili o perfetti.
Dopo aver travolto e soggiogato gli indigeni, la cui civiltà si sarebbe trovata ad un livello inferiore, avrebbero importato la propria religione naturalistica espressa successivamente nel Rig Veda, culto che sarebbe stato imposto alle conquistate e ‘inferiori’ etnie dell’India.
Fin dalle sue prime formulazioni non furono in pochi coloro che si posero tra i detrattori di Muller e della sua teoria.
Studiosi come G. Feuerstein, S. Kak e D. Frawley nel loro testo Antica India la culla della civiltà[2] proposero ben diciotto argomentazioni a confutazione delle ipotesi di Muller. Tra le principali e più significative troviamo la totale assenza, tra i supposti discendenti ariani, ovvero gli odierni induisti, della memoria di una invasione che li avrebbe condotti in quelle terre.
Nello stesso Rig Veda, inoltre, non si accenna mai ad eventi di questo tipo ma sono invece presenti chiari riferimenti in cui si parla di un popolo che visse indisturbato in queste terre per qualche migliaio di anni e di ‘antenati’ che possono essere identificati abbastanza chiaramente con l’etnia che i moderni archeologi hanno denominato Civiltà Harappa.
Ad ulteriore testimonianza vi è la totale assenza nei testi sacri di qualsivoglia riferimento o indicazione inerente questa migrazione, invasioni o quant’altro possa minimamente collegarsi a quanto proposto da Muller o dai sostenitori della sua teoria.
Gli stessi reperti rinvenuti nella città di Harappa, così come quelli rinvenuti a Mohenjo Daro, non fanno pensare ad invasioni ma piuttosto propendono per uno spostamento pacifico dello stesso popolo. Le motivazioni di questo evento rimangono tuttora un mistero, un enigma non ancora svelato dall’archeologia.
I documenti, i resti archeologici e la stessa scrittura indiana ci mostrano invece una stringente continuità e contiguità linguistica e culturale tra la civiltà Harappa e quella vedica, un legame senza interruzioni di sorta[3].
Esistono addirittura connessioni stringenti con la precedente civiltà di Mehrgarh, situata nel Belucistan, una regione del Pakistan a confine con l’Afghanistan che, verso l’8000 a.C. ospitò i primi insediamenti urbanizzati al mondo e ospitò la nascita delle prime forme di agricoltura.
Un nuovo punto di svolta venne ad imporsi con la scoperta, durante gli anni Venti e Trenta del XX secolo, dei siti di Harappa e Mohenjo Daro nella valle dell’Indo, attuale Pakistan.
Fin dai primi scavi risultò evidente come queste città costituissero il frutto di una pianificazione estremamente avanzata ed altamente centralizzata, retaggio di una cultura profondamente sofisticata ma fino ad allora totalmente dimenticata dalla storia e dagli uomini.
Ancor più indicativa fu la scoperta che queste rovine erano molto più antiche rispetto alla data del 1500 a.C. proposta dai teorici dell’invasione ariana.
Come era possibile che una civiltà mai prima identificata potesse essere nata in queste terre? Come era possibile che risalisse ad un periodo vicino al 3000 a.C., fosse antica quanto quella sumerica o egiziana se non a loro precedente?
Per quanto l’evidenza archeologica avesse profondamente scardinato dalla base la teoria ariana, questi sistemi non furono abbandonati così facilmente e la stessa si adattò e plasmò alle nuove esigenze e generazioni di studiosi, ovvero per assurdo proprio a ciò che avrebbe dovuto rappresentare una testimonianza critica in senso contrario.
L’adattamento avvenne sullo sfondo delle teorizzazioni ottocentesche. In precedenza gli ariani avevano travolto tribù primitive di cacciatori e raccoglitori dalla pelle scura: la nuova formulazione si trasformò invece in un’implicita ammissione che l’invasione era avvenuta ma contro una civiltà urbana sofisticata e fiorente in India almeno mille anni prima il loro arrivo e di gran lunga più avanzata culturalmente. Tutto ciò sempre presupponendo che questi popoli non fossero all’altezza del loro superiore valore e della loro tecnologia militare!
Inizialmente gli Arii erano stati rappresentati come un popolo civilizzatore contrapposto ad un’India barbarica ed ottenebrata da pratiche stregonesche mentre nella nuova visione questo popolo era stato trasformato nel distruttore di una fiorente civiltà molto più antica della loro, una cultura progredita in cui ogni elemento dimostrava la sua esistenza da moltissimo tempo.
Le evidenze si sommarono ai riscontri archeologici e la teoria perse nel tempo la sua validità e forza. Nessun riscontro diede progressivamente credito alle teorie ottocentesche mentre la diffusione della lingua indoeuropea trovò rispondenza teorica con le migrazioni, avvenute in un remoto passato, del popolo Harappa verso le zone europee.
Tali migrazioni comportarono anche un passaggio di conoscenze, un ‘cammino culturale’ che da questi territori giunse fino alle nostre terre influenzandone i popoli e le culture che le abitarono.
Ad oggi non è stata compiuta nessuna indagine in merito ma sarebbe oltremodo interessante, ed importante, porre maggiore interesse a riguardo al fine di comprendere la nostra stessa storia sotto una nuova luce ed aspetti del tutto inediti.
La supremazia europea a lungo decantata iniziò quindi a decadere in un fuoco fatuo acceso per una vanagloria effimera dimostratasi del tutto priva di fondamento mentre le nostre radici sembrarono realmente attingere ad una ecumene culturale ormai dimenticata ed estremamente più antica.
Sarà solo dal 1999 che i testi accademici saranno aggiornati e modificheranno le proprie pagine in favore di una corretta storicizzazione del popolo Harappa e del suo primato contro una mai avvenuta invasione ariana.
Tra i principali sostenitori dell’autoctonicità degli ariani troviamo Gregory Possehl[4], professore di Antropologia all’Università della Pennsylvania. Non ultimo, un contributo fondamentale alla querelle è giunto dalle ricerche in campo genetico, studi che hanno permesso di confutare definitivamente le teorie di Muller dimostrando come gli spostamenti di questi popoli si fossero originati da migrazioni del tutto pacifiche. Attraverso tali studi si è potuto inoltre confermare come il gruppo genetico a cui appartiene la casta braminica si sia mantenuto del tutto inalterato nei millenni[5] e si sia originato nelle regioni himalayane dell’India.
Tale riscontro si collega direttamente ed indissolubilmente anche alle numerose tradizioni che collocano proprio in queste aree geografiche sia l’approdo di Manu e dei Sette Saggi dopo il Pralaya, il Grande Diluvio indiano, quanto il luogo in cui la tradizione voleva che fosse giunto dal cielo l’Adi Yogi, Shiva il primo maestro Yoga.
Dopo un periodo di meditazione durato diversi millenni Shiva impartì il proprio sapere a sua moglie Parvati e ai SaptaRishi inviando questi ultimi nel mondo per civilizzarlo!
Tradizione e ricerca genetica sembrano quindi collegarsi e fondersi in un percorso comune in cui le scoperte scientifiche degli ultimi anni sembrano confermare le leggende più antiche del nostro pianeta.
L’elemento fondante di tale filo conduttore è stato il marcatore genetico denominato aplotipo R1a1 presente sul cromosoma Y.
Curiosamente le regioni indiane e himalayane iniziarono a presentare questo particolare tipo di marcatore[6] verso il 12.000 a.C.[7] epoca in cui le tradizioni indiane più remote, e le scoperte dell’archeologia marina più recenti, collocano la fine di una avanzata civiltà a seguito del disgelo avvenuto dopo l’ultima glaciazione.
[1] Abate Dubois, Hindu Manners, Customs and Ceremonies, Clarendon Press, Oxford, 1906, con una prefazione di Friederich Max Muller.
[2] Georg Feuerstein, Subhash Kak, David Frawley, Antica India la culla della civiltà, Sperling & Kupfer, 1999.
[3] Laurie Patton, Indo-Aryan Controversy: Evidence and Inference in Indian History, Taylor & Francis, 2005.
[4] Gregory L. Possehl, Indus Age, University of Pennsylvania Press, 1996.
[5] Si veda ad esempio la pubblicazione scientifica, The Indian origin of paternal haplogroup R1a1substantiates the autochthonous origin of Brahmins and the caste system, apparsa su Journal of Human Genetics (2009) 54, 47–55.
[6] La cui origine viene identificata nell’Asia centrale.
[7] Studio di Anatole A. Klyosov e Igor L. Rozhanskii, dal titolo “Haplogroup R1a as the Proto Indo-Europeans and the Legendary Aryans as Witnessed by the DNA of Their Current Descendants”, pubblicato in Advances in Anthropology (2012) Vol.2, No.1, 1-13.
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