Il Cemento dei Faraoni, tra mito e realtà

E se i monumenti egizi fossero stati edificati diversamente da come pensiamo? Nella “Stele della Carestia” la chiave di una tecnologia costruttiva perduta?

di Enrico Baccarini ©

Tratto da ARCHEOMISTERI, I Quaderni di Atlantide – n°9 Maggio/Giugno 2003

Nel 1889 nell’isola di Sehel vicino l’isola Elefantina, a nord di Assuan, venne rinvenuta da C.E. Wilbour una incisione su di una stele di roccia. Successivamente, il minuzioso lavoro di traduzione compiuto da Brugsch (1891), Pleyte (1891), Morgan (1894), Sethe (1901) e Barguet (1953) ha permesso di riportare alla luce forse uno dei più intriganti manufatti dell’antichità. Questa stele è oggi conosciuta con il nome di “Stele della Carestia” e sembrerebbe custodire al suo interno un importantissimo segreto, che potrebbe rivoluzionare le conoscenze sull’antica tecnologia egizia. Il testo venne studiato ed esaminato per diversi decenni conducendo gli studiosi a proporre differenti traduzioni, e quindi interpretazioni, per i suoi contenuti.
Ciò che incuriosì maggiormente alcuni egittologi si trova nella terza parte della stele, la parte che, concordemente in tutte le traduzioni, tratta della costruzione di edifici e monumenti. In questa parte della stele vengono chiamate in causa tre delle più importanti figure che caratterizzarono l’antico Egitto, il faraone Zoser (costruttore e dell’omonima piramide), lo scriba Imhotep (custode dell’antica sapienza egiziana) e il dio Khnum. L’aspetto più controverso di questo reperto risiede proprio in questi passi che secondo alcuni egittologi potrebbero introdurre nuovi concetti tecnologici mai rinvenuti prima nella storiografia egiziana.

La “Stele della Carestia”

Uno degli aspetti più controversi, ed attualmente dibattuti, che possiamo evincere dal testo risiede nella totale mancanza di riferimenti a materiali per la costruzione comunemente utilizzati nell’antico Egitto. Le istruzioni date ad Imhotep dal dio Knuhm per la costruzione di templi ed edifici infatti non menzionano neanche una volta l’utilizzo di blocchi di granito, sabbia o fango. L’iscrizione ci presenta inoltre un sogno (colonna 19) che Zoser ebbe grazie all’intervento del dio, in cui al posto delle pietre, per la costruzione vengono dati riferimenti precisi per l’utilizzo di “minerali(1) per la costruzione in loco di pietre”.
“Dai tempi antichi nessuno li ha più utilizzati per costruire i templi degli dei…”, così il dio Knuhm si riferisce al giovane faraone dandogli inoltre riferimenti quantomeno curiosi per la costruzione di edifici e della propria sepoltura. Nel sogno, Zoser riceve infatti una lista di minerali che molte traduzioni non avevano precedentemente interpretato dal geroglifico per la grande difficoltà nell’identificarle. Secondo ricercatori come Joseph Davidovits risiederebbe proprio in questi passi la chiave fondamentale per poter acquisire una nuova conoscenza delle tecniche di costruzione anticamente utilizzate in Egitto. Grazie al fondamentale aiuto di un team di ricercatori, traduttore ed egittologo Davidovits ha iniziato a studiare gli antichi termini geroglifici contenuti nel testo ottenendo dei “riferimenti chiave” (sic) che con estrema difficoltà hanno permesso di ottenere un testo coerente e soprattutto “funzionale”. La nuova interpretazione della Stele della Carestia effettuata da Davidovits ha cercato di spiegare come il faraone Zoser, che costruì la prima piramide conosciuta dell’Egitto nel 2.750 a.C., fosse stato “istruito” per la “costruzione di pietre” (ARI-KAT, in egiziano) attraverso un procedimento che oggi potremmo definire di tipo chimico. Quando risultati di queste ricerche furono disponibili al grande pubblico di studiosi e di appassionati, si ebbe modo di assistere ad una vera e propria rivolta del mondo accademico nei confronti di un ricercatore che non era un né egittologo né uno studioso del settore ma “semplicemente” un chimico con una specializzazione in geopolimeri.


Uno stralcio della trascrizione della “Stele della Carestia”

Davidovits, dal canto suo, suggerì attraverso studi di alto valore scientifico la possibilità che le pietre di granito(2) con cui furono costruite le piramidi non fossero state, nella loro totalità, estratte dalle cave di Assuan (distanti centinaia di chilometri), ma fossero per la maggior parte state “ri-costruite” in loco attraverso una tecnica particolare da lui ri-scoperta all’interno della Stele della Carestia. Se realmente le piramidi furono costruite con questo ingegnoso sistema, sarebbero stati utilizzati meno uomini di quanti se ne fossero ipotizzati prima, e dati a riscontro di tale ipotesi vengono oggi forniti dal responsabile per la piana di Giza il Prof. Zahi Hawass, con le scoperte effettuate negli ultimi anni nel “Villaggio dei Costruttori”.
Alcune colonne della stele contenenti termini forse interpretabili al di là delle traduzioni convenzionali

La domanda che da sempre gli studiosi e gli appassionati dell’antico Egitto si sono posti è come abbiamo potuto migliaia di uomini erigere delle strutture che ancora oggi sembrano sfidare qualsiasi tecnologia. La domanda si ripresenta se pensiamo che recenti esperimenti compiuti in Giappone e ancora in Egitto ci hanno dimostrato l’attuale impossibilità di poter ricostruire tali monumenti se non utilizzando tecnologie appena oggi ipotizzate o progettate. È da ridimensionare inoltre il mito dell’utilizzo di una quantità di uomini illimitata per la costruzione delle piramidi. Le scoperte effettuate dal Prof. Hawass dimostrano che i costruttori delle piramidi sarebbero stati all’incirca 30.000 e non 100.000 ed oltre come suggerito nel passato. L’utilizzo di strumenti semplici (rame, pietre, legno, corde etc.) rende ancora più difficile immaginare come siano stati posizionati poco meno di 2.300.000 blocchi di granito, con un peso medio dalle 2 alle 15 tonnellate (ed in alcuni casi anche oltre).
Le investigazioni compiute da Davidovits in oltre due decenni di studi hanno fornito nuovi elementi che sembrerebbero proporre nuove ipotesi di lavoro, se non quantomeno spiegare, le possibili tecniche utilizzate per erigere questi colossali monumenti. Come studioso di geopolimeri la sua via preferenziale è stata quella di cercare di capire se i dati contenuti nella Stele della Carestia potessero essere validi per la messa a punto di un composto che potesse risultare simile al granito.
Può risultare difficile pensare che una tecnica così progredita e raffinata potesse essere utilizzata oltre tremila anni fa. Davidovits ha posto ai suoi detrattori però un’obiezione ricordando come forme altamente tecnologiche, e anacronistiche, siano state possedute e rinvenute in tante civiltà del nostro passato. Basti ricordare le ormai famose pile di Baghdad che costituiscono un vero e proprio anacronismo storico-archeologico, l’elettricità viene infatti scoperta verso la metà del XIX secolo ovvero circa quattromila anni dopo la costruzione di queste pile rudimentali.
La casta sacerdotale egiziana deteneva un potere pari forse a quello del faraone stesso, ma era soprattutto depositaria delle conoscenze scientifiche, oltre che religiose, del tempo. Questo ha fatto suggerire a diversi autori che antichi residuati di “civiltà precedenti” o il frutto stesso di scoperte effettuate prima della loro “scoperta” ufficiale potessero essere parte del patrimonio scientifico-religioso della casta sacerdotale egizia. Con tale spiegazioni forse potremmo comprendere meglio questa dicotomia tecnologia del nostro passato.


Note:
1. Comunemente reperibili nell’antico Egitto.
2. Granito egiziano: È un granito alcalino, distinguibile in due varietà (grana grossa e fine), proveniente dai territori dell’alto Egitto, presso Assuan (Siene). Il suo impiego risale a partire dal 2600 a.C. da parte degli Egiziani nella costruzione delle piramidi e continua in epoca romana.

Il potere dissolutivo di alcune sostanze in grado di portare a liquefazione blocchi di calcare

Identificazione di acidi carbossili in diverse piante dell’antico Egitto che potrebbero essere state utilizzate per disgregare e ricompattare blocchi calcarei

Denominata “Stele della Carestia”, questo blocco di pietra venne scolpito in epoca relativamente recente, durante le dinastie Tolemaiche (~200 a.C.), ma certi indizi indicano che possa essere in parte la ritrascrizione di documenti molto più remoti risalenti all’Antico Regno (2.750 a.C.). Incapaci di porre rimedio ad una vasta carestia che imperversava nel regno gli scribi tolemaici avrebbero ricercato responsi in antichi documenti trovando una risposta nella grande libreria di Ermopoli. Durante il regno del Re Zoser (2.500 anni prima) si era verificata una carestia simile la cui soluzione era stata data dal dio Khnum. Ciò portò probabilmente alla ritrascrizione di antichi documenti sulla Stele della Carestia.
Secondo l’egittologia ufficiale l’utilizzo di pietre prima del regno del faraone Zoser non era molto comune, i corpi dei grandi dignitari veniva inumati in sepolcri conosciuti con il nome di Mastabe. Con l’avvento di Zoser assistiamo però ad un vero e proprio sconvolgimento, non solo con la costruzione delle prime piramidi ma anche con l’edificazione di una quantità impressionante di templi e strutture civili.
Davidovits da tali assunti ha cercato di comprendere se le nozioni inserite all’intero della stele potessero essere alla base della costruzione geopolimerica (con il termine “geopolimerizzazione” si intende un processo chimico di aggregazione di minerali il cui risultato riproduce fedelmente e chimicamente una roccia partendo dai suoi costituenti base) delle rocce calcaree della piramide.
Dal punto di vista geochimico il 90% delle rocce presenti nella Grande Piramide è costituito da materiale di tipo calcareo mentre il restante 10% è costituito dal materiale “cementante” delle roccia.
Secondo Davidovits ci possiamo trovare davanti ad “ottime imitazioni di rocce” costruite con una tecnologia di non difficile reperibilità per gli antichi egiziani. Davidovits è riuscito a riprodurre fedelmente rocce calcaree partendo dai loro costituenti base. Osservando le proprietà disgreganti di acidi presenti anche presso le antiche dinastie egiziane Davidovits ha proposto un modello chimico che, anche se estremamente avversato, ha ottenuto ampio successo nel mondo della ricerca e della chimica. L’acido formico, l’acido ossalacetico, l’acido acetico, l’acido idrocloridrico sono in grado di “disciogliere” letteralmente una pietra fino a farla diventare una sostanza simile al fango. Quasi come se sottoposta ad un rito magico, questa sostanza, se riarricchita con polvere di granito, insieme ad alcuni estratti vegetali, riassume, solidificandosi, l’aspetto e la composizione di un blocco di granito naturale (per una spiegazione dettagliata e completa del procedimento rimandiamo il lettore agli attenti ma specialistici “papers” inseriti dal Prof. Davidovits all’interno del suo sito Internet: www.geopolymer.org). Migliorando e collaudando questo procedimento Davidovits, nel corso degli anni, è riuscito a riprodurre fedelmente blocchi di granito anche di diverse tonnellate in tutto e per tutto uguali a quelli utilizzati per la costruzione delle piramidi o di templi egiziani.

Un’antica raffigurazione non pienamente compresa che secondo il Prof. Davidovits potrebbe rappresentare la “creazione” di blocchi di calcare. Sotto, una raffigurazione moderna di come potevano essere costruiti blocchi di calcare

Se questo metodo sembrerebbe, in prima analisi, poterci spiegare come le piramidi sarebbero state costruite, dobbiamo altresì essere molto attenti e rigorosi per quanto il passato ci ha preservato fino ad oggi. Sembra infatti fuori discussione che debba essere trovata una via “super partes” tra gli studi condotti dal Prof. Davidovits e quanto l’egittologia ufficiale ci presenta. La geopolimerizzazione ci permette di capire come le pietre potrebbero essere state “assemblate” negli strati alti della piramide, per esempio, ma le testimonianze e gli antichi documenti ci indicano senza ombra di dubbio come non oltre 30.000 uomini fossero gli artefici reali della Grande Piramide.
Forse le assunzioni di Davidovits sono state troppo totalitarie e generalizzate, non prendendo in considerazione alcuni dati sicuri che ci vengono dall’egittologia, ma riteniamo non si debba negare o avversare a priori questo nuovo approccio poiché sarebbe in grado di spiegare molte più anomalie di quante ne possiamo immaginare.
Uno scenario in cui al normale iter costruttivo si può affiancare questo sistema di costruzione ci permetterebbe di capire, e comprendere appieno, come questi monumenti siano stati eretti nella loro maestosità. Forse è oggi troppo semplice, con i progressi quasi giornalieri della scienza, teorizzare e connotare determinate scoperte nel passato, ma nulla vieta di ritenere, che come nel caso delle pile di Baghdad (che sicuramente ebbero un utilizzo limitato all’ambito sacerdotale (3)) una forma particolare di costruzione magico-religiosa di pietre ex-novo possa aver costituito la base per la costruzione o l’ultimazione degli antichi monumenti lasciati dal popolo egiziano. Nulla lo vieta e non poche prove sembrerebbero dimostrarcelo.

Note:
3. Se le pile di Baghdad fossero state di comune utilizzo nell’antichità non avremmo oggi conoscenza solo di due esemplari che si suppone siano ancora conservati al museo di Baghdad, guerra permettendo.

Una costruzione piramidale calcarea creata dal Prof. Davidovits con il suo metodo desunto dalla Stele della Carestia

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