Dante e i Templari, una comune ricerca del Divino

Molto è stato detto sui contenuti velati di interesse politico ed esoterico sapienziale delle opere di Dante Alighieri. Per nominare i più importanti basterà citare i lavori di Rossetti e Aroux, di Valli e Guénon. Dante, come appartenente alla cerchia dei Fedeli d’Amore, ghibellino convinto e critico del papato dei suoi tempi, incorse nelle note vicende politiche fiorentine tanto che il suo impegno politico gli valse anche una condanna a morte, che fortunatamente i fiorentini non riuscirono a eseguire.

Va subito detto che contrariamente a quanto dice Rossetti, Dante rimane sempre il cristiano cattolico immerso nello spirito del suo tempo. Anche se non ebbe sempre un rapporto facile con la chiesa,  mostra una costante ricerca della ortodossia. Questo venne riconosciuto con l’enciclica “In praeclara” del 30 aprile 1921 di papa Benedetto XV, in cui per la prima volta una persona non elevata all’onore degli altari ebbe il riconoscimento di una enciclica.

Dante esprime notevole rispetto per San Tommaso come anche per il suo antagonista intellettuale Sigieri di Brabante, la cui dottrina fu influenzata da concetti avverroistici e che ebbe grande influenza sui giovani adepti Templari. Dante attacca il papato non in quanto tale, ma in quanto istituzione degenerata, espressione di nepotismo e simonia, immersa nella lotta politica territoriale che ne fuorvia le intenzioni. Per Dante l’armonia universale richiede la coesistenza delle due forze complementari del papato e dell’impero, della vita contemplativa e attiva, simboleggiati dalla Croce e dall’aquila. Ogni male del mondo deriva dalla confusione dei ruoli di queste due entità, entrambe direttamente ricondotte ed istituite dalla grazia divina.

Così Dante vede l’origine della degenerazione della chiesa, della istituzione della Ecclesia Carnalis nella Donazione Costantiniana, fonte della sete di potere temporale della chiesa, e vi si oppone proprio perché sostenitore della chiesa vera, di quella Ecclesia Spiritualis cara ai gioachimiti ed ai francescani spirituali. Dante subisce in questo le influenze spirituali di Gioacchino da Fiore, abate Cistercense morto nel 1202, nella sua visione della chiesa corrotta. La lotta contro la chiesa decadente e simoniaca aveva del resto già trovato un sostenitore illustre in Bernardo da Chiaravalle, fondatore dei cistercensi e grande sostenitore dei Templari, ai quali trasmise la sua regola monastica.

In questo contesto il suo pensiero è pervaso da questo fervore purificatore che è in attesa del papa angelico, restauratore di una chiesa spirituale, in comunione con l’imperatore, guida materiale del mondo. A iniziare con le crociate del 1100, con i contatti della cristianità con il mondo musulmano e con la sapienza greca di cui era rimasto tutore, con il neoplatonismo e la gnosi, specialmente attraverso la corte palermitana dello svevo Federico II, imperatore illuminato, un fervore nuovo scuote l’Europa, per nulla immersa in un amorfo medioevo buio come vuole l’opinione corrente. Nasce alla corte palermitana la “poesia d’amore”, allegoria per la devozione alla sapienza intesa in modo gnostico, e si estende poi verso la Toscana e l’Italia in toto.

Contemporaneamente gli studi filosofici nel mondo musulmano in Spagna raggiungono la Provenza, ove da tempo albergava una certa insofferenza al papato, e anche qui il canto per la Sophia, la Shekinah, prende le forme della canzone trobadorica d’amore. I Templari furono un anello di legame privilegiato tra le culture gnostiche cristiane, ebraiche e musulmane, data la loro posizione geografica ed i contatti che poterono tenere nel cuore spirituale delle tre religioni monoteiste, la sacra Gerusalemme. La spiritualità templare finì per coincidere in larga misura con la devozione all’amore sapienziale, e Dante non poteva rimanerne estraneo.

La sua massima attività come poeta coincide poi con avvenimenti drammatici della chiesa e dell’impero, scatenati dalla coincidenza di papati prettamente volti ai valori terreni come quello di Bonifacio VIII e Clemente V, alle aspirazioni alla corona imperiale della casa regnante di Francia nella persona di Filippo il Bello, ed alla crisi della istituzione della corona imperiale. Cade in quel periodo, come culmine di questa lotta, la celebrazione del concilio di Vienne con la seguente soppressione dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio.

Anche se rimane incerto se Dante fu adepto laico dell’Ordine o ne fu simpatizzante esterno, è certo che tali avvenimenti non potevano non stimolare precise prese di posizione in un uomo come Dante. È comunque questa appartenenza almeno ideale di Dante all’ordine dei Templari la chiave dell’intera sua opera letteraria e soprattutto della Divina Commedia. Il poema ci si svelerà come dottrina prettamente templare della felicità. La gnosi templare di Dante è la vera “donna” del suo spirito fin dagli anni della giovinezza. Dante si rivela come adepto templare anche nelle sue ingeniose simmetrie Croce-Aquila.

Non solo in quanto per lui la Chiesa simboleggiata dalla croce è la chiesa ideale, nel senso templare, ed è un impero ideale quello raffigurato dall’Aquila, ma già la scelta stessa di questi due simboli e la loro congiunzione in un tutto inscindibile è patrimonio spirituale templare: infatti l’aquila congiunta con la croce non era altro che l’insegna raffigurata nel sigillo del gran maestro dei Templari dopo il 1200, in forma di un’aquila sormontata da una croce e da due stelle, poggiata su una roccia. Va comunque sottolineato che i lavori di Dante formano un insieme e senza la conoscenza delle opere minori è impossibile un giudizio complessivo sul contenuto della dottrina di Dante. È impossibile separare Dante poeta da Dante teologo, filosofo, teorico della società e dell’Impero.

I due fini voluti da Dio e che l’umanità ha il dovere di perseguire sono la beatitudo temporalis (felicità terrena) e la beatitudo aeterna(felicità celeste). La prima è intesa da Dante come un ordinamento in terra delle condizioni di vita che assicuri ad ogni individuo la Libertà di formare e sviluppare la propria vita secondo le sue personali capacità e disposizioni.

Brevi cenni di storia dei Templari

S’impone a questo punto un breve riassunto di alcuni fatti storici concernenti l’ordine dei Cavalieri del Tempio. Quest’ordine cavalleresco nacque sull’onda delle prime crociate insieme ai giovanniti, formati da mercanti e deputati all’assistenza ai malati, ed ai teutonici, formati da nobili di orgine germanica. Vennero fondati da sette cavalieri nobili francesi, raccolti intorno ad Ugo di Payens il 1109 sotto il nome di “Pauperes Commilitones Christi”. Ebbero poi un sito sulla piana del tempio di Salomone e assunsero il nome di “Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonici”.

Come chiesa madre edificarono un edificio ottagonale nell’angolo sudoccidentale della piana. Nel concilio di Troyes del 1128 ricevono la regola dall’abate Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei Cistercensi, e come insegna il mantello bianco con croce rossa ad otto punte sul lato sinistro. Il 29 marzo 1139 con la bolla Omne datum optimum Innocenzo II sottrae l’Ordine alla giurisdizione vescovile sottoponendolo direttamente alla sua potestà. L’ordine giunse rapidamente a posizioni di potere e ricchezza notevoli, attirando sospetti e gelosie. In più i suoi contatti intimi con il mondo musulmano fecero sì che gli adepti venissero a conoscenza della cultura mistica e gnostica dell’islam, come della mistica ebraica e cristiana. Nei fermenti spirituali del ’200 e ’300, che si opposero al decadimento della chiesa, essi finirono per occupare una posizione vicina ai gioachimiti e francescani spirituali, impregnandosi di idee neoplatoniche e gnostiche con la creazione di un insieme dottrinale che è chiamato generalmente gnosi templare.

La ricchezza, il potere e le posizioni politiche dell’ordine gli attirarono l’odio del re di Francia Filippo il Bello, che nella sua corsa per assicurare la corona imperiale al re di Francia, era disposto a tutto. Utile strumento nelle sue mani per la distruzione dell’ordine furono il suo vicecancelliere Guglielmo Nogaret, che schiaffeggiò Bonifacio VIII ad Anagni per contrastare e quindi impedire la scomunica del suo padrone, ed un certo Noffo Dei, rappresentante in Francia di banchieri Fiorentini e noto malvivente. Questo Noffo Dei, che morirà impiccato proprio in Francia ancor prima del rogo di de Molay, viene posto da Dante nella Tolomea, luogo di pena dei traditori, e il drago Gerione ne prenderà le sembianze tra il tradimento e la morte. Ugo Capeto allude nel purgatorio (XX,33) al trasferimento del suo discendente nella roccaforte dei Templari a Parigi quando parla del “portar nel tempio le cupide vele”, e Dante motiva il colpo inferto ai Templari con la insaziabile avidità del re di Francia. Sempre Ugo Capeto (Purg.XX,86-90) stigmatizza il Nogaret come vile ladrone parlando dei fatti d’Anagni, senza ovviamente nominarlo per nome.

Le vicende del concilio di Vienne

Il concilio di Vienne venne convocato non solo per discutere delle presunte eresie Templari, ma anche di tre tesi dell’Olivi, condannate. Si discuteva se Cristo era già morto al momento del colpo di lancia al costato, se l’anima umana era già completa dal momento del concepimento o se derivava da una evoluzione da anima vegetativa e sensitiva fino a quella intellettuale, acquisita con le facoltà del pensiero, e infine, come conseguenza, se il battesimo fosse efficace contro il peccato originale già nei bambini in tenera età o se acquistasse tale efficacia solo al momento del raggiungimento dell’età della ragione.

Dante sostiene velatamente tutte le tesi dell’Olivi, specialmente il terzo punto. Nel “Nobile castello” (Inf. IV,36) troviamo oltre alle anime di pagani vissuti in modo moralmente ineccepibile, moltissimi bambini, appunto tutti quelli morti prima della età della ragione, anche se battezzati. Comunque i punti delle tesi dell’Olivi, sui quali il Concilio di Vienne tace, sono indifferenti al poeta. Dante segue le tesi del francescano spirituale solo quanto lo esige il suo Templarismo.

Egli contesta la legittimità del concilio di Vienne e in questo modo salva la propria ortodossia cattolica senza dover riconoscere il processo dei Templari e il loro scioglimento. Il concilio di Vienne fu il 15° concilio ecumenico e venne convocato per il 1310 il 12 agosto 1308. Data la situazione politica di un papa soggetto alla volontà del re di Francia Filippo il Bello, dei 231 metropoliti e prelati convocati se ne presentarono solo 123 e dei 14 re solo uno, appunto Filippo, non essendo sicuri della propria incolumità fisica. Dante non era il solo a mettere in dubbio la ecumenicità del Concilio e già nel ’300 un cronista inglese ebbe a scrivere: “Questa assemblea non si può nemmeno chiamare un concilio, perché il papa faceva tutto di testa sua, sì che il Concilio non poteva nè rispondere né approvare”.

La chiesa asservita alla volontà del re di Francia appariva come la massima espressione della Ecclesia Carnalis. Ubertino da Casale aveva visto in Clemente V il continuatore dell’”Antichristus Mysticus”, Bonifacio VIII. Da un punto di vista dottrinale il problema venne risolto più tardi, quando la chiesa stilò un elenco dei concili ecumenici, e perciò dottrinari, includendovi quello di Vienne. Il concilio di Vienne comunque non dispose la soppressione dell’ordine dei Templari, non potendovi trovare sufficienti elementi di eresia; la soppressione venne decretata per via amministrativa diretta da Clemente V il 22 Marzo 1312 con apposita bolla.

Se il pontificato di Bonifacio VIII gettò le basi, fu quello di Clemente V a rappresentare il culmine dello sviluppo detestabile in seno alla chiesa. Beatrice annuncia con le ultime sue parole nel Paradiso (XXX,147) la dannazione di questo papa. Analoga profezia fecero papa Nicolo III (Inf. XIX, 52) e San Pietro (Par XXVII, 22 e 58). Il Cardinale Napoleone Orsini ebbe a dire che sotto il papato di Clemente V i maggiori benefici ecclesiastici erano caduti quasi tutti, per compenso o per vendita, in mano agli usurpatori. Clemente V entrò nella storia come uomo di sfrenato nepotismo e simonia. È pertanto singolare l’esistenza di due lettere scritte da Dante, una indirizzata ai re d’Italia ed ai senatori di Roma, una all’imperatore Arrigo VII, ove parla ancora benevolmente del papa. Le lettere sono del 1310.

Il cambio di opinione di Dante sul papa, che nella commedia viene posto all’inferno, coincide con le prese di posizione del papa negative per l’Ordine. Dante è meno adirato contro il papa in quanto simoniaco e corrotto, qualità ben diffuse nella chiesa di allora, ma in quanto nemico dell’Ordine e fautore della sua soppressione. Beatrice, che rappresenta la sapienza, lo condanna in quanto “prefetto del foro divino”, e cioè giudice nel tribunale contro i Templari. Dante nega al papa la legittimità, paragonandolo per bocca di Nicolò III (Inf. XIX, 85-87) al sommo sacerdote Giasone.

Nel 4° libro dei Maccabei si narra come Giasone giunse alla carica corrompendo il re Antioco Epifane, Dante allude pertanto ad un sospetto che Bertrand de Got, futuro Clemente V, avesse incontrato nella foresta di Saint Jean d’Angeli Filippo il Bello, che in cambio del suo appoggio avesse chiesto, tra altro, la distruzione dell’Ordine del Tempio. Dante cambiò idea sul papa in relazione al suo comportamento verso i Templari.

Il 13 ottobre 1307 Filippo il bello fa arrestare motu proprio i Templari in Francia, confiscandone i beni, come già aveva fatto con quelli degli ebrei nel 1306. Ancora in uno scritto del 29 maggio 1308 il papa dichiara comunque l’innocenza dei Templari. Clemente V costrinse anche il re a consegnargli i beni dei Templari. Si ricordi che ancora nel 1303 Clemente V aveva convocato il Gran Maestro Templare a Roma, pensando di potersi servire dell’Ordine per vendicare lo schiaffo del Nogaret a Bonifacio VIII ad Anagni. Numerosi re comunque si opposero alla caccia ai Templari, il fratello di Arrigo VII e principe elettore di Treviri, Baldovino, convinto della non colpevolezza dei Templari concluse nel 1310 per la loro assoluzione, come fece il re d’Aragona a Salamanca, dopo comunque avere confiscato prima i loro possedimenti. Arrigo VII stesso fu uno strenuo difensore dei Templari, come del resto dei francescani spirituali che trovarono rifugio nella sua cerchia, guadagnandosi la sconfinata ammirazione di Dante. Il 13 marzo 1311 il papa, per non correre il rischio di ulteriori assoluzioni da parte di concili periferici non direttamente controllati da Filippo il Bello, ordina di usare la tortura contro i Templari. Da questo momento in poi non potevano più esserci dubbi sulle reali intenzioni del papa, e da allora egli diventa l’anticristo per Dante.

Del resto un simile cambiamento di opinione è visibile in Dante verso i fratelli Giacomo II e Federico II d’Aragona, rispettivamente re di Sicilia e di Aragona. Dante li elogia per bocca di Manfredi nel purgatorio (III,116), ma nel Paradiso rimprovera a Federico la viltà, nel Convivio il dare ascolto a cattivi consiglieri. Cosa era successo? Un certo Araldo da Villanova, consigliere del re e acerrimo nemico dei Templari, indusse il re ad aprire un procedimento contro l’Ordine. Questo scagionò i Templari ma fu sufficiente per scatenare l’ira di DAnte, anche in virtù della fedeltà che i cavalieri avevano dimostrato agli Aragonesi dopo i vespri siciliani.

E questo anche se Federico rimase sempre strenuo sostenitore di Arrigo VII e della causa imperiale. Un’analoga trasformazione da lode in biasimo si trova a carico di Giacomo, biasimato nel purgatorio (VII) e nel paradiso (XIX). Giacomo aveva ordinato, dopo il ricevimento della bolla papale “Pastoralis Praeeminentiae solio” del 12 novembre 1307, l’assalto ai castelli Templari di Minaret, Monçon, Castaviega e Castello, con l’arresto dei cavalieri. A Salamanca fece assolvere l’Ordine, da cui una minore severità del poeta nei suoi confronti. Del resto per il semplice fatto di avere partecipato al concilio di Vienne, anche se aveva sempre rifiutato di usare la tortura contro i Templari e preseguitarli, procurò l’anatema di Dante all’arcivescovo di Ravenna.

Riferimenti ai Templari e alla loro dottrina nella Divina Commedia

Passiamo ora a parlare più direttamente dei riferimenti d’interesse templare contenuti nella Divina Commedia. Naturalmente non dobbiamo cercare riferimenti espliciti; dopo il concilio di Vienne e lo scioglimento dell’Ordine nel 1312, i poeti della cerchia dei Fedeli d’Amore dovevano esprimersi in modo cifrato per non essere accusati di eresia e perseguitati. Tentativi di esegesi cabalistica e numerologica della Divina Commedia sono stati fatti in abbondanza, e qui ci limiteremo ad accennare alla ricorrenza di un numero interessante sotto il punto di vista del Templarismo. Il numero 13, numero dei componenti un capitolo templare e numero dei grandi elettori del gran maestro, come anche numero neccessario per fondare un nuovo monastero cistercense, è usato frequentemente nella commedia.

Dante raggruppa le persone in cerchie di 13 nell’ inferno: 13 si fanno riconoscere per il loro nome, 13 per i segni che danno e 13 per essere conosciuti direttamente dal poeta. Nel purgatorio sono 13 gli angeli nominati, 13 anime sono nominate nell’antipurgatorio, 13 nella valletta amena. Dante incontra 2 volte 13 persone tra la valletta ed il Paradiso. Nella valletta si noti poi che si canta il Salve Regina, liturgicamente in uso tra Prentecoste e l’Avvento, al posto del “Regina Coeli Laetere”, tipico della Pasqua. Ma la regola cistercense prevede il Salve Regina tutto l’anno, e così lo prevedeva anche la regola dei cavalieri cistercensi, cioè dei Templari. I preganti si rivolgono ad Oriente come era uso degli adepti Templari.

Una figura allegorica di particolare interesse è costituita dal Veglio di Creta. Questa è una delle più importanti simmetrie croce-aquila nella commedia dantesca. Lo sguardo della statua è rivolto verso Roma, come lo è del resto quello di Satana. La statua è lacerata, divisa, simboleggiando la separazione tra chiesa ed impero, tra croce ed aquila. Come la statua si regge sul piede di terracotta più che su quello di ferro, così Roma crede di poter fare a meno della ferrea disciplina dell’Impero. Come ha sottolineato il Valli, la statua che simboleggia la miseria umana si trova a Creta, isola dove fecero naufragio Enea, fondatore dell’impero ancora privo della croce e San Paolo, uomo di chiesa non ancora conciliato con l’impero.

Il fiume di lacrime che origina dalla spaccatura del veglio in ultima analisi confluisce a formare il lago di ghiaccio, dimora di Lucifero, causa prima della spaccatura stessa e punito pertanto dagli esiti della sua stessa azione. La statua volge le spalle a Damietta, luogo dove fecero naufragio impero e chiesa nella conquista della Terra Santa, ma anche per respingere l’iniqua accusa che allora venne mossa ai Templari come corresponsabili della disfatta. Non per nulla poi la statua imita qualla apparsa in sogno a Nabucodonosor. Come infatti quel re aveva distrutto il tempio di Salomone, così la spaccata statua di Creta ricorda la distruzione dell’Ordine dei Templari da parte del Nabucodonosor infernale. La sua testa aurea è però intatta -non solo per la purezza dei dignitari dei principi Templari, ma anche per la speranza nella sua restaurazione. Non aveva forse Zorobabel riedificato il tempio di Salomone? La statua del Veglio sarà restaurata quando si incontreranno a Roma il Veltro di Virgilio ed il DXV di Beatrice, la Ecclesia spiritualis e l’impero.

La casa madre dei Templari era sita sulla piana del tempio a Gerusalemme, punto d’incontro della spiritualità cristiana, musulmana ed ebraica. Per Dante la felicità terrena e quella celeste sono indissolubilmente legate. Dante incontra Beatrice, La donna del suo spirito, nel Paradiso terrestre, sito in cima al monte del purgatorio, e da lì Beatrice lo eleva al Paradiso celeste. Al centro del manto terrestre che copre l’imbuto infernale, sta Gerusalemme. L’idea del purgatorio come monte e del paradiso come sua cima è del resto tipico dell’Islam.

Il Paradiso, posto agli esatti antipodi, come immagine speculare, della città di Gerusalemme è un tipico pensiero templare. Dante nel suo viaggio intende se stesso come la rappresentazione allegorica dell’Umanità che si eleva verso la perfezione. Sulla soglia del Paradiso Virgilio gli conferisce tiara e corona imperiale come simbolo dei due poteri che solo uniti possono ne possono aprire la porta. Per Dante il Paradiso terrestre è il sito simbolico del tempio. In esso egli incontra Matelda che raccoglie fiori gialli e rossi, i colori dello stemma di Gerusalemme. Procedendo incontra i fiumi Lete ed Eunoè, che delimitano l’angolo Nord est, angolo in cui incontrerà Beatrice. Come antipodo esatto di Gerusalemme, questo angolo Nord-Est corrisponde all’angolo della città ove si trovano i resti del tempio di Salomone. Il punto in cui incontrerà il carro trionfale di Beatrice corrisponde al sito della chiesa ottagonale dei Templari e che aveva il nome di Templum Salomonis. Salomone nel Paradiso saluta Beatrice, donna allegorica, con il canto “Vieni sposa dal Libano”, che nel medioevo indicava la Chiesa Spirituale. Dante segue poi il carro trionfale verso Oriente per tre tiri di freccia, circa 210-240 metri, raggiungendo l’albero del bene e del male, luogo ove Satana fu vittorioso sulla coppia umana. Agli antipodi, sul piazzale del tempio, dopo un analogo tragitto, si raggiunge l’angolo sud-est, detto pinnacolo del tempio, ove secondo la tradizione avvenne la tentazione di Cristo da parte del maligno.

Il 33° canto del purgatorio inizia con le parole del salmo 79: “Deus, venerunt gentes”, che prosegue poi con “polluerunt templum sacrum tuum”. L’allusione alle “genti che hanno invaso e profanato il tempio del signore” è ovvia. Beatrice risponde con le parole del Vangelo di Giovanni (16,16):” Ancora un poco, e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete di nuovo”, alludendo alla speranza nella resurrezione dell’Ordine. Beatrice, parafrasando le parole dell’Apocalisse (17,8) dice “Sappi che ’l vaso che il serpente ruppe fu e non è” (Purg. XXX, 34), negando con tale espressione la legittimità del Concilio di Vienne. Come salvatore viene indicato il DXV inviato da Dio (Purg. XXX,43). Con questo non può essere inteso altri che il ricostruttore del Tempio, auspicata da Beatrice, allegoria della gnosi templare, e da Dante, in quanto adepto. La ricostruzione del tempio di Salomone, distrutto nell’anno 588 a.c. da Nabucodonosor II, avvenne da parte di Zorobabel nel 515 a.c. come generalmente accettato nella storiografia ebraica (Herzfeld, Dressaire). Il DXV-515 sta per l’annuncio di una seconda ricostruzione, di un secondo Zorobabele, e come tale dell’imperatore gioachimita. E con la ricostruzione del tempio si combina la purificazione della chiesa operata dal Papa Angelicus, l’annunciato Veltro di Virgilio, con la ricostruzione della unità di croce ed aquila, essenziale per la salvezza umana.

I concetti della dottrina dantesca

Beatrice fa parte di quella schiera di donne allegoriche care ai poeti del dolce stil nuovo e come tali continuazione della tradizionale raffigurazione della sapienza come femminile (sophia, shekinah). Il culto della donna allegorica proveniva dalla Persia. Lì nacquero tutti i grandi luminari dell’Islam, e lì si formò la scuola mistica dei sufi. Molte poesie sufiche esprimono un netto indifferentismo religioso, attaccato di panteismo da fonte cristiana, ma mai apertamente sconfessato dalla gerarchia ortodossa islamica, come lo furono invece analoghi movimenti gnostici cristiani influenzati da tale pensiero. I manichei per esempio professavano uno gnosticismo dualista secondo influenze dello zoroastrismo persiano. Nel loro linguaggio segreto usavano chiamarsi i “Figli della Vedova”, forse per influenza egiziana del culto di Iside. I trovatori del sud della Francia, spesso opposti a Roma, furono fonte di trasmissione del sapere della cultura araba consolidatasi in Spagna.
Gli albigesi ripresero alcune teorie, singolare è l’importanza data al vangelo di Giovanni, letto come “Consolamentum” all’imminenza della morte naturale. Affiora in essi la dottrina della purificazione delle anime tramite la trasmigrazione, concetto di origine indoeuropea, giunto in provenza attraverso la Persia ed i mistici arabi della Spagna. È singolare comunque che la lotta dei poeti amorosi provenzali, così vicini alla eresia albigese, contro la curia romana conosce una eccezione – i Templari. Mai un trovatore ha cantato una satira contro questo Ordine.
Una comune origine gnostica accomuna albigesi, Templari e sufi, in contatto tra loro ed espressione della gnosi nelle loro rispettive religioni. La mistica in Persia diventa la maschera del libero pensiero ed in modo similare lo intendono i Templari. La setta degli ismailiti, che conosceva sette gradi di perfezione, era l’espressione estrema con la sua autonomia ed opposizione all’autorità dogmatica, di tale pensiero. I sodalizi Templari, impegnati dalla gnosi della Gaia Scienza d’Amore, adottarono in tutto il suo rigore la segretezza dei misteri antichi e svilupparono tecniche iniziatiche. Le prime donne allegoriche cristiane erano nate a Palermo, alla corte di Federico II, ed il loro nome era sempre Rosa.
L’amore cantato alla corte di Palermo, si applica chiaramente alla spiritualità templare, che del resto era in sintonia con la corte ghibellina. Nata a Palermo, la poesia d’amore come forma di gnosi si estese in toscana e al resto d’Italia, qui le donne allegoriche iniziarono a fregiarsi di nomi sempre diversi, realistici e di migliore copertura pubblica. Del resto questi poeti non operavano più con il consenso e sotto la protezione dell’illuminato imperatore Federico II alla corte di Palermo, ma in condizioni varie, spesso in ambienti guelfi legati al papato, ed una maggiore segretezza era d’obbligo. Dino Compagni chiama “Donna Intelligenza” la sua donna, vestendola dei colori verde rosso e bianco visti anche in Beatrice. Come in Guido Cavalcanti troviamo analogie di pensiero con il sufismo di Ibn Bagga, in Dante riecheggia lo spagnolo Abu Arabi. Vediamo intensamente influenzate dalla poesia e dal pensiero islamico la poesia provenzale, e forse ancor più quella siciliana e la toscana. In questo si vede una fusione di neoplatonismo ed aristotelismo.
Plotino vide l’anima come un pezzo d’oro insudiciato ed infangato, al quale si ponevano due alternative – quello dell’ascesa e della liberazione, e quella dell’affondare nella semplice materialità del corpo. La via verso l’alto, verso gli dei, verso l’intima natura dell’Io, era anche quella che tentavano di dischiudere gli antichi misteri. Plotino chiamò il principio dell’armonia naturale “Intelligenza”, (il nous), mettendo sopra di esso l’Uno Assoluto, sotto di esso la psiche. Al culmine della vita spirituale Plotino vede l’estasi. Nel grande vuoto dell’anima che si priva di ogni pensare, desiderare, aspirare, si compie l’ingresso della grande quiete, della pienezza della felicità. Non possiamo approfondire ulteriormente le similitudini, ma vale la pena sottolineare quanto questo pensiero si avvicina alla concezione del Satori nel buddhismo Zen, anche se in quest’ultimo è l’uomo a creare il Satori, l’illuminazione con le proprie forze, quando per Plotino rimane neccessario un intervento esterno, simile alla grazia cristiana, che lui chiama Eros.
L’eros è l’aspirazione al mondo superiore, al superamento del condizionamento materiale, Dante dice “Al cor gentile ripara sempre Amore”. Il neoplatonismo agisce nel pensiero cristiano attraverso Riccardo di San Vittore, Agostino, Boezio e Scoto Eriugena. Rientra poi in Occidente attraverso i contatti con l’Islam. Gli ultimi filosofi della scuola neoplatonica di Atene, chiusa da Giustiniano, emigrarono in Persia e lì i loro successori vennero in contatto con l’Islam, dando origine alla sua corrente mistica, il sufismo. La venerazione araba per l’Intellectus Activus plotiniano trovò poi la via per l’Europa attraverso la corte imperiale di Federico II a Palermo, la Spagna ed i Cavalieri Templari. Qui converge l’esaltazione dell’Eros plotiniano, della venerazione dell’Amore. Amore che non nasce dalla sola vista, ma dal vedere e ripensare costante. Questo travaglio intellettuale del ripensare costante è sottolineato in modo continuativo dai Fedeli d’Amore.
Nel Templarismo spirituale questa abitudine alla riflessione profonda diventa caratteristica essenziale, soltanto nel suo ambito può formarsi quella elite spirituale a cui si aspirava come germe del rinnovamento di chiesa ed impero. I Templari, acerrimi nemici della Ecclesia Carnalis scaturita dalla donazione costantiniana, si consideravano come silenziosi portatori di questo germe della nuova chiesa, in piena concordia con le tesi di Dante. Una catena iniziatica ininterrotta passa da Ermete Trismegisto per Pitagora, Platone, Seneca, Plotino e Giamblico fino ai Fedeli d’Amore ed ai poeti ghibellini siciliani, ed attraverso i Templari fino alla accademia platonica di Firenze.
Anche se Plotino ricusava la gnosi, i fondamenti del loro pensiero e delle loro aspirazioni filosofiche ultime erano simili e si fusero, irradiandosi nella morente religione greco-romana come nei tre monoteismi di origine medio-orientale. I Templari, come i poeti d’amore dell’alto medioevo si inseriscono a pieno titolo nella tradizione ermetico-gnostica-neoplatonica. Dante nella sua lenta e faticosa ascesa dal buio delle umane nefandezze verso la luce di Dio, si rivela gnostico, esprimendo le grandi verità in modo appena velato per tenerle a disposizione di chi ha orecchie per sentire. L’accenno di Beatrice (Purg. XXXI, 51) alle sue “membra in terra sparse” suona simile ad un passo nel Vangelo di Eva, gnostico: “Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei là sono io, e in tutti io sono sparsa”, analoghi passi possono essere trovati nel vangelo di Filippo. Del resto come la gnosi templare recepì il sufismo islamico, così nello stesso periodo fu scritto nella Spagna musulmana lo Zohar, massimo libro della gnosi ebraica. La raffigurazione di Dio come punto Luminoso (Par. XXVIII,16) è una immagine tipica della Cabala.
La gnosi templare accoglie la ricerca della progressiva smaterializzazione dell’uomo interiore, fino alla spiritualizzazione suprema. L’amore descritto è l’eros neoplatonico, la causa della mors philosophorum, della distillazione ultima della componente divina dell’uomo. Nel Convivio Dante dice: “Quella fine e preziosissima parte dell’anima che è la deitade” (Convivio III,2). In questo contesto la conquista della visione di Beatrice, che poi si fa tramite della visione di Dio, è una elegante esposizione della dottrina gnostica templare della beatitudine.

Dal sito Zenit – Rivista di massoneria e cultura simbolica

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