Ayurveda – Bharadvaja e le origini mitiche della medicina indiana
di Enrico Baccarini© – L’Ayurveda costituisce una disciplina ancora oggi misconosciuta e talvolta, in Occidente, deviata dai suoi insegnamenti originari. Secondo la tradizione induista questa disciplina era trapelata dalla ristretta cerchia degli “dei” che ne erano i detentori per giungere al genere umano. Se le ascendenze mitiche
In India è opinione diffusa che ciò che viene per primo sia più importante, perché contiene in nuce tutto ciò che si svilupperà in seguito. Quindi la prima parola di un libro è la più importante, e così la sua prima strofa e il suo primo capitolo.
La Charakasamhita (“Collezione di Charaka”, la principale fonte per la conoscenza degli aspetti speculativi della medicina ayurvedica) si apre descrivendo le origini mitiche della medicina: è un ardente desiderio di longevità che spinge un Rishi come Bharadvaja ad avvicinarsi al dio Indra.
Bharadvaja è un asceta dal fortissimo tapas (l’ardore ovvero il potere derivante dalle pratiche ascetiche) eppure questo tapas non è sufficiente a fargli ottenere la conoscenza dell’Ayurveda.
Il tapas ha un ambito limitato, serve a produrre un effetto preciso: per apprendere l’Ayurveda occorre invece un maestro. Indra, però, non era il dio che possedeva la conoscenza originaria di questa arte che, a sua volta, gli era stata donata dai divini gemelli Ashvin, che l’avevano ricevuta dal padre delle creature, Prajapati, questi, a sua volta, da Brahma, dio supremo e suo primo possessore.
Bharadvaja potrebbe dunque rivolgersi al primo anello della catena, e forse riceverebbe un insegnamento più completo perché, come recita un adagio indiano, “la sapienza è come il miele, ogni volta che viene travasata da un recipiente ad un altro se ne perde qualche stilla“.
Bharadvaja preferisce però chiedere l’aiuto di Indra perché questo dio, a differenza di Brahma, ha una vita molto breve, è dunque più vicino alla condizione umana e maggiormente mosso a compassione.
Inoltre Indra non ha ancora trasmesso la sua sapienza ad alcun discepolo e, indubbiamente, si presume sia ansioso di tramandare ciò che ha appreso. Nella visione indiana chi riceve un insegnamento non è libero di tenerlo per sé, o di sprecarlo, ma contrae verso i suoi maestri un debito e un voto che verrà estinto soltanto quando la conoscenza sarà stata donata ad un altro individuo.
Il fatto che Indra non abbia ancora impartito i suoi insegnamenti, lo rende dunque come maestro preferibile agli altri dei, perché questi hanno già operato la loro trasmissione di conoscenza.
La narrazione del mito nella Charakasamhita prosegue quindi con un flashback, che rivela i nobili intenti di Bharadvaja: in realtà egli non vuole conoscere l’Ayurveda soltanto per trarne vantaggio ma anche per donarlo ai grandi veggenti che lo avevano, a loro volta, inviato dal dio.
Incontrandosi sulle pendici dell’Himalaya, i più importanti rishi avevano tristemente constatato che le malattie impedivano ormai agli uomini di vivere serenamente e di compiere le loro pratiche religiose, e speravano quindi che Bharadvaja potesse riuscire ad ottenere da Indra un rimedio.
L’asceta in realtà non apprende dal dio l’Ayurveda nella sua forma originale ma in un breve riassunto. Grazie alla sua straordinaria intelligenza, egli coglie però con una fulminea intuizione la smisurata dottrina ayurvedica e la applica a sé stesso, una vita lunga e felice è il naturale premio che Bharadvaja riceve, prima ancora di tramandare l’Ayurveda agli altri Rishi.
Da maestro a discepolo, l’insegnamento giungerà poi ad Atreya, e da lui ad Agnivesha, l’autore della Charakasamhita.
Anche nell’opera di Sushruta, la Sushrutasamhita (altro testo fondamentale, meno speculativo ma essenziale per la conoscenza della chirurgia indiana), un gruppo di veggenti si angustia per le malattie somatiche, psichiche e traumatiche che affliggono il genere umano e chiede aiuto ad un’altra figura. E’ il re di Benares, Divodasa Dhanvantari, dio egli stesso o, per l’esattezza, avatara (incarnazione sulla Terra) di Brahma.
Il re accetta volentieri che i saggi divengano suoi discepoli e rivela loro che il dio Brahma aveva creato l’Ayurveda come appendice ai Veda ancor prima di generare tutte le creature. Vedendo però che la vita umana era breve, e non sarebbe stata sufficiente ad apprendere le 100.000 strofe in cui l’Ayurveda era stato concepito, il dio suddivise la materia in otto parti:
- la chirurgia (shalya)
- l’oftalmologia-otorinalaringoiatria (shalakya)
- la medicina generale (kayacikitsa)
- la demonologia o psichiatria (bhutavidya)
- la pediatria (kaumarabhritya)
- la tossicologia (agadatantra)
- la sezione degli elixir e dei ricostituenti (rasayana)
- la sezione degli afrodisiaci e dei trattamenti contro la sterilità (vajikarana)
Il re Dhanvantari senza svelare, in quel momento, come aveva ricevuto l’ottuplice insegnamento, chiese ai suoi discepoli quale parte dell’Ayurveda desiderassero conoscere.
La risposta fu un invito a privilegiare rispetto alle altre discipline la chirurgia. Il re riconobbe quindi la supremazia delle cure chirurgiche che furono applicate sia ai Deva (dei buoni) e agli antidèi, che si erano feriti combattendo furiosamente, nonché a Yajna, la personificazione del sacrificio, la cui testa era stata tagliata da Rudra e poi riattaccata miracolosamente dagli Ashvin.
Dalle parole di Dhanvantari si rende immediatamente chiara l’intenzione di Sushruta che, a differenza di Charaka, pone al centro dei suoi interessi la medicina generale, privilegiando la chirurgia.
Un brevissimo flashback dà conto anche qui dell’immancabile trasmissione del sapere medico da Brahma a Prajapati, agli Ashvin, a Indra e infine a Dhanvantari.
La trasmissione dell’insegnamento da una divinità all’altra è quindi uguale nei due trattati di Charaka e di Sushruta; le differenze hanno inizio a partire dal livello umano, anzi, più che umano, nel caso del re-dio Dhanvantari.
La diversa trasmissione da maestro a discepolo (guruparampara) esposta nell’Ashtangasamgraha ha un importante valore simbolico: l’obbiettivo è riunire la medicina generale alla chirurgia, dando però maggior risalto alla prima rispetto alla seconda.
Indra non può più dunque avere un solo discepolo privilegiato, cui offrire l’ambrosia dell’Ayurveda: i discepoli saranno numerosi, e fra loro vi saranno anche Atreya Punarvasu, per bocca del quale sarà esposta la Charakasamhita, il Dhanvantari della Sushrutasamhita, e persino Bharadwaja.
La particolare posizione di preminenza accordata alla medicina generale è segnalata in due modi: innanzitutto Atreya è posto a capo degli altri discepoli di Indra; in secondo luogo, nell’enumerazione delle otto parti della medicina viene menzionata per prima proprio la parte detta kaya, “[cura del] corpo”, mentre la chirurgia è soltanto quinta.
Bharadvaja è il nome di uno dei sette leggendari mistici (i Sapta Rishi) che secondo la tradizione induista avevano composto i Veda. Sempre questa figura ascoltò per primo dal saggio Valmiki il poema epico del Ramayana e tramite lui lo rese accessibile agli uomini. Sui figlio Drona, invece, viene citato e gli è dedicato un intero libro del Mahabharata, il Drona Parva.
E’ oltremodo interessante notare l’importanza questo saggio possiede nella tradizione induista ma ancor più come lo stesso Bharadvaja sia la stessa figura a cui è attribuita anche la tradizione dell’aviazione nell’antica India. La conoscenza sui Vimana, i così detti carri volanti degli dei indiani su cui spesso ci siamo soffermati, costituirono una linea sapienziale che fece riferimento come suo primo maestro proprio a Bharadvaja. Ma questa è una storia che riprenderemo nel futuro!
Bibliografia di riferimento:
- Enrico Baccarini, I Vimana e le Guerre degli Dei, Enigma Edizioni, 2014, Firenze.
- “La medicina indiana (Ayurveda)” Antonella Comba – Promolibri
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