H.P. Lovecraft: Ipotesi di un Viaggio in Italia
Antefatto
Nel luglio del 2002 il giornalista romano Roberto Leggio ritrova per caso, all’interno di un libro acquistato in una bancarella di Montecatini (PT), un vecchio ed ingiallito diario in forma di lettera con date comprese tra il maggio ed il luglio del 1926. Il contenuto del documento, invero piuttosto lacunoso, descrive tutti i momenti più salienti di un viaggio iniziato dalla costa orientale degli Stati Uniti fino alla regione del Polesine, nel Veneto. Assieme agli appunti di viaggio, sono presenti una serie di riflessioni sulla suggestione dei luoghi, e numerosi riferimenti alle numerose leggende del Polesine, in particolare ai Racconti del Filò.
Il manoscritto è indirizzato ad Alfred Galpin, e reca la firma “Grandpa Theo”.
Galpin (che visse molti anni a Montecatini) è un nome noto agli studiosi lovecraftiani: (uno dei pupilli dello scrittore di Providence) mentre “Grandpa Theo” è uno degli pseudonimi usati da HPL nella copiosa corrispondenza con colleghi ed amici, talvolta usato sotto forma di “Theobaldus” (in caratteri greci). Leggio, assieme al collega ed amico Federico Greco (giornalista e documentarista), decide di far visionare il documento al Prof. Sebastiano Fusco, probabilmente il più noto e rigoroso esperto lovecraftiano in Italia, responsabile insieme a pochi altri della diffusione dell’opera omnia dello scrittore americano nel nostro paese. Dopo tutta questa serie di rocambolesche coincidenze, Leggio e Greco decidono di intraprendere un vero e proprio viaggio di ricerca nelle terre del Delta del Po. Lo scopo sarà quello di verificare l’ipotesi secondo la quale Lovecraft, al contrario di quanto noto ai suoi storiografi, avrebbe viaggiato in Italia nel 1926 traendo ispirazione dallo stesso viaggio, e dai Racconti del Filò, per la composizione delle sue opere successive. Queste ultime saranno la parte centrale e fondamentale di tutto il ciclo di Chtulhu (tra cui il celebre The Shadow over Innsmouth) e, probabilmente, anche quelle che conferiranno maggiore notorietà a Lovecraft, elevandolo a grande maestro della narrativa fantastica di ogni tempo.
Nasce così H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia (26’), girato nella scorsa primavera e prodotto dalla Digital desk, di Piergiorgio Bellocchio e Andrea Marotti.
Il documentario
“Polesine…terra di acqua e fango”…queste sono le prime parole pronunciate da una rilassata compagnia di autoctoni del luogo, attorno ad un rassicurante falò notturno. Si apre così questa suggestiva opera dei due giovani registi Federico Greco e Roberto Leggio, con all’attivo già numerosi interessanti lavori tra documentari, cortometraggi e lungometraggi. H.P.Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia avrà molteplici compiti: seguire il cammino descritto nel diario, cercando di ripercorrere tutte le tappe ed i luoghi in esso citati. Accompagnare lo spettatore nella scoperta di un’affascinante zona d’Italia non molto conosciuta alla massa e, soprattutto, evidenziare tutta una serie di curiosi e straordinari parallelismi tra il folklore del Polesine e l’opera del maestro di Providence. Ma andiamo per ordine…
Gli autori ricostruiscono in base alle pagine del (presunto) diario di Lovecraft tutta l’ipotetica permanenza ed il pellegrinaggio dello scrittore nei luoghi più mistici e solitari del delta del Po.
Già la prima sequenza dischiude tutto il fascino ed il mistero che ammanta questo manoscritto ritrovato, (autentico o no che sia) per tutti gli appassionati della grande narrativa fantastica del ‘900: Sebastiano Fusco, uno dei massimi esponenti della “lovecraftologia” in Italia, chiede di visionare il manoscritto, che si presenta come un plico ingiallito e consunto dentro il quale sono riposti, piegati in due, un folto numero di pagine densamente riempite con inchiostro blu. La calligrafia, abbastanza nota agli esperti di HPL, intervallata da disegni di paesaggi e creature fantastiche, sembra essere proprio quella dello scrittore del Rhode Island. Fusco esamina le prime pagine con occhio attento ed afferma che, in caso di autenticità del documento in questione, si potrebbe parlare della scoperta del secolo per tutti gli studiosi lovecraftiani. Ha così inizio un viaggio in una sorta di dimensione parallela; un viaggio introdotto da un’efficace voce fuori campo su tutte le tappe salienti del diario, intramezzando la narrazione con una serie di preziosi interventi di studiosi del folklore locale (G. Sparapan, E. Baldini, C. Crepaldi), abitanti del Polesine, ed esperti lovecraftiani (S. Fusco, G. De Turris).
La veloce carrellata sull’infanzia e l’adolescenza dello scrittore è senz’altro essenziale nella visione d’insieme del documentario. Fusco abbozza un ritratto di HPL con mano affettuosa e sapiente, accentuando quasi impercettibilmente la probabile causa scatenante dello straordinario effluvio narrativo di Lovecraft: il traumatico evento del ricovero in manicomio del padre, avvenuto nell’infanzia del maestro.
Notevoli le riprese negli interni della Biblioteca Marciana di Venezia, che viene ripetutamente citata nel manoscritto come una delle più importanti in Europa. Fusco afferma che “Se c’è un posto al mondo che avrebbe potuto davvero attirare Lovecraft,, questo è la Biblioteca Marciana di Venezia[…]” che può essere sicuramente vero, anche se il discorso generalizzato alle biblioteche nel “mondo” implica necessariamente una menzione particolare alla grandiosa Biblioteca di Alessandria, fondata da Tolomeo I, che HPL sicuramente conosceva bene ed ammirava svisceratamente. Le morbide carrellate sugli antichi tomi della Biblioteca Marciana, custodi di saperi remoti ed ancestrali, infervora l’immaginazione e focalizza l’attenzione su di una parte di questa importante sede del sapere umano. La cospicua presenza di antichi e rari testi, dal contenuto magico-esoterico ed occultista, avvalora l’ipotesi di plausibilità di una possibile visita di HPL nella biblioteca veneta. Viene anche sottolineato, da M. Zorzi (direttore della Marciana), che un passaggio di HPL presso la biblioteca in questione sarebbe stato comunque conservato nei registri di accesso e di prestito librario, in obbligo in tutte le biblioteche del mondo. Rimane comunque il fatto che Lovecraft amava circondarsi di pseudonimi e giochi di parole, quindi non è da escludere che lo scrittore abbia voluto, per qualche motivo (attualmente ignoto), criptare il proprio passaggio in Biblioteca con uno pseudonimo verosimile.
Suggestive le riprese in movimento dell’entroterra polesano, in una sorta di tributo a queste terre a tratti surreali nel loro aspetto così misterioso, sinistro ed al tempo stesso sognante. L’intento da parte dei due registi di dischiudere un micro-universo a sè stante, è evidente sin dai primi minuti di questo affascinante lavoro. L’ottima fotografia, dai toni caldi ed avvolgenti, cattura lo sguardo in un continuo susseguirsi di immagini, sovrapposte alla tranquilla voce dell’io narrante (di Roberto Herlitzka). Efficaci le animazioni che, nella loro semplicità, arricchiscono lo scopo quasi pedagogico di alcune sezioni del documentario, considerando questo lavoro anche come un tributo alla vita e all’opera dello scrittore americano. Il documentario si regge su una serie di equilibri sottili ma solidi al tempo stesso, riuscendo brillantemente nell’intento di suggerire invece che mostrare, fondamentale approccio che lo stesso Lovecraft adottò come una sorta di vera e propria filosofia del suo modo di scrivere.
Un’altra parte integrante del cortometraggio, è interamente costituita da testimonianze vere di abitanti del luogo, affiancate da altre di studiosi di folklore e di misteri italiani. In questo punto, il lavoro di Greco e Leggio assume un approccio più marcatamente “americano” nel modo di esporre il materiale da documentare. Il montaggio si fa serrato, e le fasi salienti delle varie interviste si incastrano come un mosaico, per dare allo spettatore una panoramica globale della vicenda. Si costruisce così un suggestivo identikit di un potenziale homo-saurus, una sorta di creatura antropo-anfibica la cui specie, secondo i Racconti del Filò, abiterebbe da millenni le zone lagunari del territorio. La similitudine con l’immonda stirpe degli uomini-pesce del racconto La maschera di Innsmouth (1931) è notevole, anche per tutta una serie di inquietanti riferimenti a case dell’entroterra del Polesine, totalmente disabitate e dalle finestre sbarrate da assi. Inoltre, il fondamentale racconto Il richiamo di Cthulhu è stato scritto da HPL proprio verso la fine del 1926, anche se il celebre Dagon, che rappresenta il germe iniziale di tutti i miti di Cthulhu, è datato 1917, ovvero nove anni prima. Ad ogni modo Lovecraft, a detta del diario in questione, sembra si sia immerso totalmente nelle varie leggende locali, le quali cambiano a seconda delle aree del delta del Po, ma che hanno come denominatore comune la presenza di questi esseri ibridi tra l’umano e l’anfibio.
Molto belle e suggestive le musiche, con un vasto impiego di eleganti e sontuosi synth contrapposti ad alcuni pittoreschi canti popolari, mentre risulta insufficiente la durata del filmato. La sensazione finale lasciata dal documentario è, infatti, di tutta una serie di questioni sollevate ma non approfondite. Numerosi sono gli spunti da cogliere al volo, ma per esaminarne il reale significato e verificare la veridicità del documento bisognerà aspettare l’esito degli esperti. In definitiva, questo H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia rappresenta un ottimo lavoro visto a sè stante; gli autori hanno dato prova di sensibilità, buon gusto, e di un sapiente uso delle tempistiche nel definire o meno alcuni aspetti del controverso manoscritto. Per saperne di più, non ci resta che attendere i prossimi risvolti che prenderà la vicenda. Intanto gustiamoci questa lunga e interessante intervista ai due autori, Federico Greco e Roberto Leggio, rilasciata per lo Splatter Container.Altra protagonista del manoscritto è Loreo (Rovigo), una piccola cittadina che sorge sulla bisettrice del canale che collega l’Adige al Po orientale. Il parallelismo con la lovecraftiana Innsmouth è molto forte: le lugubri e fatiscenti catapecchie dalle finestre sbarrate, come a voler celare qualche orribile abominio mai sopito. L’odore lacustre e putrescente di qualcosa che è sedimentato da tanti (troppi) anni in uno stato di totale decadenza ed abbandono, ed anche la dettagliata piantina di Innsmouth, che HPL disegnò in coincidenza con la stesura del racconto, come se avesse già visitato quei luoghi riprodotti con tanta precisione. Ma la cosa che più colpisce di tutta questa serie di parallelismi è, probabilmente, la citazione nel manoscritto della Confraternita della S.S. Trinità dei “Fradei” di Loreo. Questa sorta di confraternita segreta, nata nel 1606 ed in seguito riconosciuta dal Vescovo, sembra essere davvero avvolta da un’aurea di mistero. Gli adepti sono vestiti di un saio rosso amaranto, e si riuniscono da tutta Italia agli inizi di agosto per celebrare una sorta di rito notturno, nel quale è proibito l’ingresso ai visitatori. Tra l’altro sembra che le persone del luogo abbiano come una vaga reticenza a parlarne, ed i sacerdoti ne accennano appena, in modo vago e imbarazzato. Davvero inquietante il parallelismo tra questi “frati rossi” ed un celebre topos lovecraftiano, ovvero quello delle sette segrete dedite al culto dei vari dei come Cthulhu, Dagon, etc…
SC – A prescindere dalla autenticità del manoscritto (ancora da dimostrare), quali emozioni avete provato nell’aver scoperto qualcosa che potrebbe essere appartenuta ad uno dei più grandi narratori fantastici del ‘900?
R.L. La prima cosa che mi viene in mente è come la casualità sia entrata di prepotenza nella mia vita. A dire il vero sulle prime il plico contenente il documento non mi aveva emozionato più di tanto. Probabilmente perché scritto in inglese che, seppur con una grafia regolare, era difficile da leggere. La cosa che invece mi ha più affascinato era la cartolina raffigurante le Procuratie Nuove di Venezia con quella firma “Granpa Theo”. Ma anche lì il collegamento non l’ho fatto subito. Poi un giorno ho avuto l’illuminazione. Nonno Theobaldus era uno dei tanti pseudonimi che usava di sovente Lovecraft quando teneva i suoi rapporti epistolari con parenti ed amici. A quel punto mi sono lanciato nella lettura del manoscritto prendendo un sacco di appunti quando una frase me ne ricordava un’altra che avevo letto nei suoi racconti. La cosa più inquietante è stato quando ho potuto constatare che alcuni passi de La Maschera di Innsmouth erano molto simili a dei passi riportati nel manoscritto. Non nego che mi tremavano le gambe al solo pensiero che per un caso fortuito ero venuto in possesso di un documento del genere. Sapevo per inciso che Lovecraft non aveva mai fatto lunghi viaggi, oltremodo fuori dagli Stati Uniti. La cosa di per sé sembrava pazzesca. E forse lo è ancora adesso. Quindi non si possono descrivere le emozioni che provavo mentre andavo avanti con la lettura. Una cosa comunque era ben chiara: come potevo dire al mondo che quello che avevo trovato su un banchetto di antiquariato, in Italia per giunta, poteva appartenere a Lovecraft? Chi ci avrebbe mai creduto? Certo, mi venne in mente subito Sebastiano Fusco. Ma potevo permettermi di andare da lui e dirgli semplicemente “Signor Fusco, mi trovavo a Montecatini e per 15 euro ho comperato una lettera manoscritta di Lovecraft? La vuole vedere?” Come minimo mi avrebbe preso per pazzo, se non addirittura per mitomane. Così ridendo e scherzando chiamai Federico, che come me divide la passione per i miti di Cthulhu. Ci incontrammo a casa mia e dopo averne riletto dei passi prendemmo la decisione di contattare Fusco. Anche a costo di fare la figura degli stupidi. Così mi feci dare un appuntamento. Per l’evento Federico portò la sua telecamera. Il nostro intento era anche quello di filmare le sue reazioni davanti ad un documento del genere. Il resto è cosa nota.
SC – Come è nata l’idea di farne un documentario?
F.G. Quando abbiamo deciso di scoprire innanzitutto se il viaggio descritto nel diario aveva delle aderenze reali o era frutto di fantasia. Prima ancora cioè di cominciare ufficialmente la verifica della paternità lovecraftiana. Che in effetti non abbiamo ancora affrontato fino in fondo, tutti presi dal progetto che ci è cresciuto tra le mani inaspettatamente.
Io avevo girato alcuni documentari per la televisione, soprattutto sul cinema. Tra questi Stanley and Us, un viaggio impossibile sulle tracce di Stanley Kubrick compiuto da una troupe di tre documentaristi in giro per l’Europa. Ma ogni volta che decidevo di affrontare un argomento – sono quasi sempre riuscito a trovarmi nelle condizioni di realizzare documentari su oggetti che conoscevo – lo controllavo già abbastanza bene da prima di iniziare le ricerche. Di Kubrick, per esempio, ero un fanatico monomaniaco da diversi anni. Di Lovecraft invece né io né Roberto eravamo “esperti”. Lo conoscevamo perché siamo entrambi appassionati letteratura horror e noir (Roberto ha scritto nel passato anche alcuni racconti), ma allo stesso livello di Matheson, Howard, Bloch… Detto fra noi sono un avido lettore, piuttosto, di Evangelisti, o Manchette sul fronte del noir.
Insomma io e Roberto decidiamo di verificare il tragitto descritto nel diario e partiamo per il Polesine. Roberto è di quelle zone e questa era l’unica cosa che ci tranquillizzava. Io invece non le conoscevo. Ovviamente ci portiamo una telecamera, la mia. Tornati a Roma, iniziamo a scrivere una traccia di un documentario possibile. Dopo quel primo sopralluogo superficiale avevamo vagamente intuito che la millenaria cultura polesana poteva ben aderire alle atmosfere scure dei migliori racconti di Lovecraft. In particolare eravamo venuti a conoscenza dei Racconti del Filò, storie di “Streghe, morti ed esseri fantastici” come recita il titolo di un importante raccolta della professoressa Milani di Padova. Tra questi esseri c’erano tracce di creature a metà tra l’uomo e il pesce. In realtà si tratta di leggende abbastanza comuni a molte popolazioni sparse su tutta la terra, ma l’appartenenza a quei luoghi era affascinante. Quei luoghi, erano affascinanti…
Dopo qualche giro per case di produzione e le doverose porte in faccia, riusciamo a infilare il piede nella porta della Digital Desk. Pier Giorgio Bellocchio crede nel progetto e con Andrea Marotti inizia l’affannosa ricerca dei soldi.
SC – La sua diffusione rimarrà esclusiva di Studio Universal, o in futuro ci sarà la possibilità di entrare nelle case di più italiani?
F.G. Pare, dico pare, che il documentario si potrà vedere su RAI DUE all’interno di un format molto seguito di seconda serata. Probabilmente avrete già capito di cosa sto parlando. Per ora non posso dire molto. Però, e anche qui purtroppo non posso ancora approfondire, al documentario sta per essere affiancata una versione cinematografica di circa 90’, prodotta sempre dalla Digital Desk insieme con la Minerva Pictures. In quest’occasione verrà raccontato quello che è accaduto alle sei persone di troupe durante gli undici giorni di riprese nel Polesine. Non è stato tutto piacevole. Diciamo… indimenticabile. Il titolo del film d’altronde parla da solo: Road to L. (che in inglese sta per Strada per L. – cioè Loreo, il paesino in cui Lovecraft e noi della troupe abbiamo fatto base; ma anche, per assonanza, Strada per l’inferno. Oppure, perché no, Strada per Lovecraft).
Forse c’è anche in ballo una versione in DVD del documentario.
SC – Raccontateci qualcosa sulle vostre giornate “on the road” e sull’atmosfera che si respira in quei luoghi così suggestivi.
R.L. Il Polesine è per sua conformazione orografica un posto che si sposa bene per una avventura on the road. Ci sono argini, rivoli, villaggi abbandonati e strade che veramente non portano da nessuna parte. A volte basta un niente per perdersi e girare intorno senza sapere dove si è arrivati. Che poi è quello che è successo anche a noi. Ad ogni modo la nostra giornata cominciava con un piano preordinato anche se poi ci trovavamo a girare tutt’altro. Dipendeva dagli indizi che scoprivamo e dalle persone che incontravamo. Ad esempio, Sparapan ci portava in certi luoghi che per noi erano quelli descritti nel manoscritto, poi però questi risultavano diversi se non addirittura insignificanti e, quindi battevamo altre strade. Un’intuizione giusta è stata quando Sparapan ci ha portato a S. Maria in Punta. In quel luogo non solo il fiume si allarga come la bocca di un enorme serpente…
F.G. …da qui l’intuizione che le parole del manoscritto “In its mouth”, cioè “nella sua bocca” (del Po) corrispondano appunto a S. Maria in Punta e che nel caso Lovecraft abbia usato quella frase per inventare il nome di “Innsmouth”…
R.L. …ma nel paesino abbandonato abbiamo trovato le case con le finestre sbarrate. Non nego che sono stato preso da un senso di vertigine. Sembrava veramente di essere dentro la parola scritta di Lovecraft. Certo era eccitante aver trovato un indizio come quello ma dall’altra parte tra la troupe si è diffuso un certo nervosismo che poi si è ripercosso per tutta la durata delle riprese Ma questa è solo una delle tante similitudini che abbiamo potuto toccare con mano in quei giorni. Un’altra ad esempio è quella della Confraternita dei Fradei a Loreo. Ancora adesso c’è chi è convinto che essi consumino un rito segreto nei sotterranei della chiesa del paese. Noi abbiamo fatto un giro là sotto e quello che abbiamo visto non era propriamente “religioso”. Ad ogni buon conto le atmosfere non sono così pesanti come si pensa. Non ci sono misteri alla “Casa dalle Finestre che ridono” per intenderci, anche se qualche reticenza nelle parole della gente l’abbiamo potuta constatare e siamo stati oggetto di un vero e proprio avvertimento. Ma a conti fatti dopo un mese immersi nella solitudine di quei luoghi, forse ci siamo fatti influenzare più del dovuto. Se così non fosse stato non avremmo avuto tutto quel materiale che abbiamo portato a casa. Di più preferirei non dire.
SC – Quali aspetti avete privilegiato nel documentare una vicenda ancora così densa di interrogativi, e quali avete dovuto invece tralasciare?
R.L. Abbiamo cercato di filmare tutto quello che secondo noi aveva a che fare con il manoscritto ritrovato, soprattutto il senso di mistero e di scoperta che traspare dalle pagine del documento. Mettiamoci anche il pizzico di avventura che ci stava coinvolgendo. Alcuni interrogativi sono stati svelati: “L.”, ad esempio, è ormai chiaro essere Loreo, come l’albergo disegnato nel manoscritto è quasi certamente l’albergo Cavalli. Al contrario abbiamo cercato di non tralasciare nulla anche perché abbiamo filmato tutto quello che capitava mentre proseguivamo nelle nostre indagini. In questo senso abbiamo girato un instant-movie. Il problema grosso si è affacciato in moviola dove Fulvio Molena, il montatore, ha dovuto fare delle scelte drastiche per poter cercare di dare un senso compiuto al nostro viaggio e al nostro documentario.
F.G. Personalmente mi dispiace di non aver potuto approfondire la ricerca delle tracce di Lovecraft presso la Biblioteca Marciana. Nel manoscritto si parla chiaramente del fatto che ha consultato alcuni libri, tra cui uno in particolare, il cui titolo è stato cancellato con forza fino a bucare la pagina del manoscritto, che ha tutta l’aria di essere Le stanze di Dzyan. Ovviamente – visto che Le stanze non esistono se non nella fantasia di Madame Blavatsky – non credo si tratti di quello. Ma di cosa si trattava allora? Ancora: Lovecraft pare essersi spinto a visitare anche la necropoli di Spina, vicino Comacchio, dove ha potuto osservare, tanto da disegnarla, l’ansa di un’anfora etrusca dall’aspetto di un essere mezzo uomo e mezzo pesce. Abbiamo poi scoperto che quella stessa ansa, identica (!) è stata trovata negli anni ’90 del secolo scorso in un’altra necropoli, quella di Ca’ Cima presso Adria. Come è possibile che Lovecraft abbia disegnato un oggetto settanta anni prima della sua scoperta? A meno che – diversamente da quanto abbiamo per il momento potuto scoprire – quell’ansa non fosse stata trovata anche nel 1926 a Spina.
In realtà le strade che non abbiamo approfondito sono moltissime. Ci vorrebbe un intero libro per parlarne.
SC – Come si sono posti Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris nei confronti della possibile sensazionale scoperta?
R.L. Superata la meraviglia di un ritrovamento del genere, entrambi ci hanno dato la loro completa disponibilità. Fusco è stato forse il più appassionato. Fin dal primo momento si è lasciato prendere dal piacere della scoperta. Ha letto il documento così bene che alla fine poteva recitarcelo a memoria. Ricordo che ogni volta che lo incontravamo, lui ci esponeva i dubbi, le perplessità ma anche le certezze che quel documento che stava esaminando doveva essere per forza stato scritto la Lovecraft. “Qui – diceva – questa “e commerciale” è proprio quella che usava Lovecraft…. Qui, invece, vedete come fa uso della sintassi, ed il modo di descrivere i luoghi? Nessuno può aver scritto queste cose se non lui!”. In pratica si è affezionato al documento come se fosse un suo figlio. Ma nonostante tutto questo entusiasmo non ha mai dato per scontato che non possa trattarsi di un falso. Anche perché a tutt’oggi la certezza matematica non esiste. De Turris, invece, è sempre stato molto attento nel dare giudizi affrettati. Anche perché, al contrario di Fusco, il documento l’ha solo visto e leggiucchiato. Ma alla fine si è posto la domanda del chi e perché qualcuno si sarebbe dovuto prendere la briga di scrivere un documento del genere. E se non è stato Lovecraft? Questo è un altro grande mistero a cui non siamo mai riusciti a dare risposta.
SC – Come era e come è attualmente il vostro rapporto con l’opera dello scrittore di Providence?
F.G. Si è evoluto da semplice amante della sua letteratura a – inevitabilmente – quasi-esperto. Faccio fatica ad usare appieno la parola ‘esperto’, perché ultimamente mi sono reso conto, parlando con alcuni dei veri esperti lovecraftiani d’Italia (a parte Fusco, De Turris e Lippi), che essere lovecraftiani significa molto di più, per esempio, di essere kubrickiani. Il lovecraftiano – ecco, io non sono certo un lovecraftiano – è per forza di cose un mezzo genio: perché non conosce solo i racconti, i saggi, le poesie e i trattati scientifici che Lovecraft ha scritto, ma anche le decine di migliaia di lettere che ha compilato fino alla sua morte. Lettere lunghe anche un centinaio di pagine. E tra queste, tra l’altro, ci sono capolavori ancora sconosciuti ai più. Essere lovecraftiani, ho capito, significa anche essere rigorosissimi: soprattutto non credere possibile neppure per un secondo che il manoscritto ritrovato a Montecatini possa essere vero. E senza neppure vederlo, a prescindere.
Ecco perché io non potrò mai essere un lovecraftiano, anche se ultimamente le circostanze mi hanno spinto a leggerlo molto attentamente e a ragionare sulla sua letteratura. Perché non sono capace di immagazzinare una mole così possente di dati su un singolo autore e di difenderne così brillantemente l’apparato filologico. Preferisco entrare nel mondo di uno scrittore, soprattutto se ha scritto racconti horror dalla fantasia sfrenata, dalla porta di servizio. Osservare in silenzio e coglierne l’essenza. E magari cercare di riprodurla con gli strumenti che mi sono più consoni e a portata di mano. E non sono certo la scrittura, né la filologia, né l’enciclopedismo. Ma la fantasia e – a mia volta – l’invenzione.
R.L. Da parte mia non è assolutamente cambiato. Lo reputo tuttora un grande scrittore. Un sognatore che è riuscito a portare sulla carta le sue paure e la sua visione del mondo. E anche se risultasse che non è mai venuto in Italia e che il manoscritto sia frutto di letture e di leggende narrategli da qualcuno, vuol dire che la sua fantasia ha davvero superato la realtà. In questo senso mi viene da paragonarlo a quei pittori iperrealisti che nelle loro opere danno una visione del mondo più reale del reale. La materia dei suoi racconti è posta sotto al microscopio e la narrazione trattata come un documentario. Sta solo a noi saper guardare sotto la crosta della normalità. Che poi è quello che abbiamo cercato di fare io e Federico mentre filmavamo le cose che ci sono capitate… ma forse adesso sto andando fuori tema.
SC – Nonostante Lovecraft sia oramai unanimemente equiparato a E. A. Poe, sembra che la televisione tenda ancora a snobbarlo: “H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia” potrebbe fungere anche da viatico di divulgazione della sua vita e della sua opera?
F.G. E’ esattamente uno dei motivi per i quali io e Roberto abbiamo deciso di intraprendere questo faticoso viaggio nel suo mondo. Purtroppo l’Italia ha tre difetti dal punto di vista dell’editoria. Innanzitutto si legge pochissimo. Poi si legge poca letteratura di genere. E infine, se la leggi sei considerato un idiota. Lovecraft è un autore pienamente ascrivibile al genere, ma purtroppo non gode del credito di cui gode Poe. E neppure di quello di Dick. Ma la differenza con Dick è che dallo scrittore californiano nato a Chicago sono stati tratti bei film. Dai racconti dello scrittore di Providence invece, ad oggi non risulta un solo film che gli abbia fatto giustizia. Se possiamo contribuire a muovere le acque, lo facciamo con entusiasmo. E se la situazione editoriale è quella che vi ho appena descritto, quella della televisione è molto peggiore. Quindi ben vengano progetti del genere.
R.L. E’ quello che abbiamo pensato una volta iniziato a lavorare sul documentario. Sono convinto che Lovecraft non sia stato mai valorizzato come dovrebbe. Per molti Lovecraft è solamente un mediocre scrittore dell’orrore che ha inventato una cosmogonia per una piccola cerchia di pubblico. Invece nessuno si rende conto che, al contrario di Poe, Lovecraft ha influenzato tutta la narrativa horror del ventesimo secolo. I “Miti di Cthulhu” non sono morti con lui, anzi sono sopravvissuti attraverso altri scrittori come Sprague De Camp, Frank Belknap Long, Ramsey Campbell, Stephen King; che hanno dato vita a generi e sottogeneri articolati e spaventosi.
Riflessioni
E’ arcinoto quanto la personalità e (di riflesso) la narrativa di HPL fosse caratterizzata da dettami di profonda interiorità ed oniricità, contrapposta ad una visione materialista e quasi illuminista del mondo fantastico. Lovecraft era al tempo stesso scienziato “vivisezionista” e vittima accondiscendente delle sue scioccanti visioni letterarie; ma più di ogni altra cosa la scrittore di Providence era uno studioso della dimensione fantastica. Questa era straordinariamente presente nella sua mente, e la nascita dei suoi incubi letterari era quasi sempre legata a due fattori preponderanti: qualche particolare studio storico o scientifico da lui svolto, oppure l’elaborazione in chiave onirica di una realtà quotidiana che gli risultava spesso indigesta. Quindi, l’inquietante substrato di racconti e leggende popolari del Polesine non sarebbe mai potuto sfuggire alla sua acuta sensibilità di ricercatore ed amante dell’insolito…sempre nel caso che lui se ne sia davvero imbattuto. Per quanto riguarda il diario manoscritto, questa non è ovviamene la sede più adatta per accertarne l’autenticità o meno.
L’analisi scientifica e grafologica sul documento potrà presto appurare con cosa abbiamo realmente a che fare. Risulta difficile pensare ad un falso d’autore, dato che l’impresa sarebbe alquanto titanica e di ardua realizzazione. Rimane comunque da dire che la biografia di HPL, curata da Kenneth Faig ed in seguito da S.T. Joshi, non fa assolutamente menzione di questo viaggio in Italia; inoltre esistono almeno due lettere ufficiali, scritte e spedite dallo scrittore in Providence, datate proprio tra il maggio ed il luglio del ’26 (custodite presso la John Hay Library – Brown University, Providence). In quel periodo lo scrittore era da poco tornato dal suo disastroso soggiorno newyorkese, e tutti i suoi attuali estimatori e studiosi sanno quanto spasmodico fosse l’attaccamento di HPL per l’adorata Providence.
Nel caso in cui Lovecraft avesse deciso di intraprendere un viaggio in Europa, l’Italia sarebbe stata sicuramente tra le sue mete predilette, anche se forse sarebbe stata più probabile una sua visita a Roma. Assieme alla Grecia, la capitale europea ha da sempre esercitato su di lui un fascino invasivo, tramandato dal nonno materno Whipple Phillips, responsabile dello sviscerato amore per l’antichità dello scrittore americano.
Altra considerazione, che non sarà di certo sfuggita agli appassionati, è il curioso parallelismo tra un diario ritrovato (reale) ed il considerevole numero di racconti che ne presentano lo stesso meccanismo di scrittura. Lovecraft, infatti, amava molto la forma di “diario” come modalità di stesura e sviluppo del plot narrativo nei suoi racconti. Pur non essendone l’inventore, la sua opera ha reso celebre al mondo intero questo stile di impostazione del racconto, tanto da coniare la dicitura di “diario alla Lovecraft”. Tutti sanno, inoltre, quanti epigoni ha avuto ed ha tutt’ora il maestro di Providence, quindi va almeno considerata l’ipotesi di una ingegnosa creazione ispirata da uno degli stili narrativi più famosi del maestro.
Ma lo sconfinato epistolario (quasi 100.000 lettere) lasciato da H.P.L. rimane per l’80% perduto, e diversi punti della vita dello scrittore rimangono tutt’ora oscuri…Non è da escludere, quindi, che per qualche motivo Lovecraft abbia davvero intrapreso questo viaggio ma non ne abbia mai fatto menzione al suo ritorno. In seguito, con l’ispirazione che aveva maturato dalla sua visita in Italia, si sia poi dedicato totalmente alla stesura dei grandi capolavori che lo hanno reso immortale, facendolo entrare nel gotha dei più grandi maestri della letteratura fantastica di ogni tempo.
Fonte – Splattercontainer, articolo di Luca Durante, 20 Febbraio 2009
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