Archeologia Psichica: L’uso delle percezioni extrasensoriali in Archeologia

Archeologia e PSI

L’Archeologia Psichica: L’uso delle percezioni extrasensoriali nello studio del passato

Si ricordano poi le descrizioni che il sensitivo polacco Stephan Ossowiecki – con la psicometria — fece di ambienti e persone, tenendo tra le mani un oggetto (avvolto in contenitori in modo da non vedere di che cosa si trattava). Pur fornendo informazioni che sembravano completare le conoscenze in possesso dei ricercatori, non fu possibile — a causa della Seconda Guerra Mondiale – controllarne la veridicità. Chi verificò l’esattezza di ciò che era stato detto da una persona dotata di facoltà psi fu, invece, J. Norman Emerson, una figura di primo piano dell’archeologia canadese. Mediante le visioni di George McMullen raccolse una notevole mole di dati relative ad alcuni siti di popolazioni native americane. Ebbe visioni anche Edgar Cayce, ma le sue numerosissime rivelazioni in merito all’esistenza di Atlantide devono essere a tutt’oggi confermate.

Clarence Wolsey Weiant, un personaggio dai numerosi interessi, poté effettuare un’importante scoperta archeologica in uno scavo relativo ad una civiltà precolombiana grazie alla chiaroveggenza di un contadino messicano. Per mezzo della scrittura automatica Federic Bligh Bond, che pur non avendo titoli accademici era una indiscussa autorità in campo architettonico, poté condurre con notevole successo gli scavi dell’abbazia di Glanstonbury, della quale poco si conosceva, ricostruendone in modo soddisfacente la storia. Da ciò che emerge dall’articolo, sembrerebbe che l’applicazione delle facoltà PSI possa essere di aiuto per acquisire nozioni in archeologia, tuttavia l’Autrice ricorda che di esse – e del loro meccanismo – poco si conosce. Nonostante ciò ritiene possano risultare utili ad amplare le conoscenze non solo da un punto di vista archeologico, storico, antropologico, ma anche sociale e psicologico.

Cecilia Magnanensi

PRIMA PARTE

da “Luce e Ombra” Anno 108° N.1, gennaio-marzo, 2008 pagg. 29-42

di Cecilia Magnanensi

«Il sogno comincia con le immagini di alcune case ricavate a scavo nel tufo e coperte da tetti di legno e paglia. Il suono di un flauto accompagna il sorgere del sole. Nel cielo una moltitudine di uccelli s’intrecciano in una sorta di caotica danza comandata da un forte vento. La musica cessa improvvisamente. Una specie di sacerdote dalla barba bianca e incolta osserva con attenzione il volo degli uccelli. Sono in alto. Ora si abbassano velocemente sul villaggio, descrivono un’ampia curva verso il mare. Sfiorano rumorosamente i tetti delle case. Mi sembra di uscire da un pesante sonno, vengo colpito da un’aria sottile e fresca. Mi alzo, il corpo è giovane ma non riesco a scorgerne il viso. Cammino su un sentiero rettilineo che taglia in due il villaggio. Non ho indumenti, salvo una sorta di perizoma.

«Ora vedo bene il centro abitato. È disposto sopra uno sperone naturale, confinante su due lati con pareti di tufo a strapiombo sui sottostanti corsi d’acqua. Mi sento felice. Contemplo la fitta vegetazione che sembra volersi stringere intorno, come in un amorevole abbraccio.
«Oltre alle difese naturali il villaggio è rinforzato da un terrapieno e da un fossato. Alcuni uomini stanno costruendo un muro con enormi blocchi di tufo squadrati. Il sacerdote visto in precedenza si avvicina. Mi osserva. Poi mi comanda di andare a cercare aiuto perché un inaspettato pericolo sta per abbattersi sul villaggio. Altre persone si avvicinano portando tre cavalli. Uno è per me. Insieme ci lanciamo al galoppo. Nella corsa incontriamo un altro gruppo di cavalieri. Sono abitanti di alcuni paesi vicino al mare.

«Ci avvertono che una moltitudine di guerrieri è sbarcata da poco seminando la distruzione Torniamo indietro Il villaggio e brulicante di persone. Qua e là strisce di stoffa colorata vengono agitate caoticamente. Il sacerdote, ora, è vestito in modo diverso. Porta una lunga tunica bianca bordata d’oro ed ha in mano due lance e uno scudo. Gli chiediamo se dobbiamo organizzare la resistenza alle porte del villaggio oppure affrontare il nemico in campo aperto. Il vecchio annuisce con la testa, indicando con la punta di una lancia la strada che porta verso il mare.
«Si riuniscono tutti gli uomini abili a combattere e vengono distribuite le armi. Ci troviamo radunati intorno ad una fontana ricavata interamente a scavo da una parete di tufo. Assisto ad uno strano rito. Tramite alcune brocche di coccio, la vasca superiore della fontana viene riempita di acqua presa da una vicina sorgente.
«Viene ucciso un animale e il suo sangue è raccolto in un ampio recipiente circolare. Da questo ancora caldo, è gettato nell’acqua della vasca. Si formano delle figure ed il sacerdote incomincia a cantare una melodia triste e cupa.

«Tutte le armi vengono ammassate in una profonda buca e sono consacrate. Poi usciamo dal villaggio. Qui ci sediamo e aspettiamo. Accompagnati da una melodia di flauto ci raggiungono i vecchi, le donne, i bambini. Portano tra le braccia le nostre armi. Secondo un antico rito veniamo vestiti al di fuori del fossato di difesa. Una volta armati rientriamo nel villaggio. Ovunque esplodono grida d’incitamento.
«I cani abbaiano, i bimbi agitano le mani. Ora altri sacerdoti celebrano nuovi riti. Uno di loro è in ginocchio. Il suo corpo nudo è coperto da un ruvido panno bianco. Dietro di lui un ragazzo leva in alto una coppa larga e scura. Un altro muove dei bastoni che poi getta all’interno di cerchi concentrici formati da sassi colorati».

Con queste parole Umberto Di Grazia ha riassunto una serie di sogni ricorrenti da lui avuti nel corso del 1970 e che terminavano con quest’immagine finale, «accompagnata dalla sensazione di una sconfitta, di non poter mai più ritornare in quel villaggio».
Questi sogni solleticarono la sua curiosità e desiderò verificare se il luogo di cui aveva avuto visione esisteva. Cominciò così una ricerca nella zona in cui abitava, nella provincia di Viterbo, perché quel villaggio sognato non corrispondeva ai centri pre-romani ed etruschi da lui visitati in precedenza.

Fu solo casualmente che si imbatté nel luogo dei suoi sogni, durante un’escursione con amici nei pressi di Capo Ripa (Capranica) con lo scopo di cercare funghi. Dopo aver girato senza trovarne alcuno, delusi, si fermarono in uno spiazzo per riposare e riprendere, quindi, la via di casa. Dopo poco Di Grazia ebbe una strana sensazione: «tutti i sensi erano acuiti… Mi sembrò di percepire un leggero suono metallico provenire da un punto preciso che cercai di raggiungere. I miei movimenti erano impacciati, pesanti e goffi. Dopo circa una ventina di metri faticosissimi mi fermai dinanzi a un fossato scavato nel terreno. Era stato costruito, chissà in quale periodo, per scopi di difesa. Sul lato sinistro il fosso terminava contro una parete a strapiombo su un torrente, mentre sulla destra, dopo una curva di novanta gradi, continuava verso un altro dirupo. Sopra il fosso affioravano degli enormi blocchi di tufo squadrati. Era un sistema murario continuo, a blocchi sovrapposti, senza l’uso di malta.

«Rividi l’ambiente più volte sognato. Si sovrapponeva perfettamente a quello reale…»

E così era, infatti. Il gruppo proseguì lungo un sentiero, l’unico visibile, e trovò «una magnifica fontana ricavata interamente a scavo nel banco tufaceo…» ed altre costruzioni, visibilmente di un’epoca molto antica. In una serie di visite successive, anche con persone esperte di storia e archeologia locale, furono trovati diversi cunicoli che si perdevano nel terreno, nei quali erano state ricavate alcune tombe, anticamente profanate, e un antico tempio, definito dal sensitivo a Y, a causa di strane incisioni al suo interno.

Solo dopo che Di Grazia portò dei frammenti di vasi per confermare che l’epoca storica in cui si credeva di dover datare la località non era il medioevo, come allora si riteneva, ma probabilmente pre-romana o etrusca, la Sovrintendenza all’Etruria meridionale organizzò alcune ricerche. Nonostante ciò, dopo uno scavo di sondaggio e poco altro, non furono intraprese ulteriori indagini. Numerose sono state le sollecitazioni e gli inviti da parte del sensitivo affinché le autorità preposte si impegnassero non solo ad approfondire le ricerche, ma anche a tutelare la conservazione e lo stato dei reperti, ma, come la corrispondenza intercorsa tra i due soggetti testimonia (1), fino ad oggi poco o nulla è stato fatto per preservare un patrimonio di tale importanza storica. L’atteggiamento delle Autorità e di chi dovrebbe, per studio, occuparsi di scavi in luoghi poco indagati è tale da non dare molto credito all’iniziativa di privati che non abbiano competenze accademiche in merito. È per questo motivo, forse, che non furono solleciti quando Di Grazia fece la segnalazione di quegli antichi resti. Perché le sue affermazioni non per-dessero di credibilità, comunque, non rivelò di avere avuto le indicazioni attraverso un sogno ricorrente e tale da ritenerlo insolito.

Si comportò allo stesso modo in altre occasioni, come, per esempio, quando poté verificare che altre sue visioni erano corroborate da reperti incontrovertibili.
Un pomeriggio di aprile del 1958 compì una gita al mare con il padre e la sorella. Dopo avere fatto visita ad un conoscente, si recò con loro sulla spiaggia nei pressi della tenuta di Capocotta, facente parte della riserva presidenziale di Castelporziano, dove per un po’ raccolse conchiglie con la sorella. Il padre aveva parcheggiato la macchina sulla spiaggia, ma al momento di partire la vettura non si mosse: una ruota, a causa della sabbia, girava a vuoto. Umberto e il padre dopo numerosi tentativi e con molta fatica riuscirono a riportarla sulla strada. Stanco e stremato per lo sforzo compiuto, il ragazzo, prima di salire in macchina, aveva cercato di rilassarsi appoggiandosi ad un tronco a guardare il mare. Ad un tratto, all’orizzonte, vide una nave antica la cui figura «inizialmente era tremolante, ma subito dopo i suoi contorni divennero nitidi e ricchi di particolari. Era molto lunga e schiacciata e aveva due ordini di remi sovrapposti. La poppa era molto ricurva. Un grosso remo fiancheggiava lo scafo. Aveva una sola vela a forma quadrata. Intorno si muovevano lentamente alcune barche.

La più grande portava al centro un grosso palo sormontato da un qualcosa che non riuscivo a distinguere. Si staccò dal gruppo per andare verso riva. Allontanandosi dalla nave fece vedere la prua. C’era un grande occhio dipinto ed era rinforzata da un lungo sperone ricoperto con lamine di metallo scuro. Intanto la barca aveva raggiunto il bagnasciuga. Ma non si fermò. Sfiorando il terreno continuo a procedere. Oltrepassò il reticolato di recinzione della tenuta di Capocotta e sparì inghiottita dalla vegetazione». Si può immaginare lo sgomento di un ragazzo a quella vista così inspiegabile. Desideroso di comprendere il significato di quella visione da cui era stato bruscamente risvegliato dal padre per tornare a casa, successivamente cercò una maniera per introdursi nella tenuta. Questa era proprietà privata e l’accesso era regolato da permessi che un giovane come lui, poco più che sedicenne, non poteva certamente ottenere. Dovette così rinunciare a scoprire questo mistero, ma l’occasione di rifarsi l’ebbe dopo qualche anno. Conseguito il diploma di geometra e iscrittosi all’università, ebbe modo di trovare lavoro presso una ditta di costruzioni edili, che guarda caso aveva un cantiere proprio nella tenuta di Capocotta. Ebbe così occasione di effettuare numerose scoperte, che cercò di segnalare alla Sovrintendenza, ma la risposta che gli venne data prendeva solo atto delle sue indicazioni.

Se le sue comunicazioni non sono state considerate nel loro giusto valore da chi avrebbe dovuto prenderle in esame (2), non è stato così per altri sensitivi che hanno collaborato con diverse personalità di indiscussa autorità nel campo.
A causa dell’utilizzo della sensitività di solito si parla di archeologia psichica, anche se sarebbe più appropriato parlare di archeologia e psi. Sogno, chiaroveggenza, psicometria o visualizzazione sono spesso i modi con cui si ottengono informazioni che altrimenti non si avrebbero. Abbiamo visto come Di Grazia, curioso di verificare se scene di vita appartenenti a popoli antichi visualizzate in sogno corrispondessero a qualche realtà, ha cercato di individuare i luoghi mai da lui visitati in precedenza in cui avrebbero potuto effettivamente svolgersi.

Inizialmente la localizzazione di antichi siti è stata fatta dopo aver avuto una serie di sogni, in seguito è avvenuta in maniera intenzionale durante alcuni esperimenti, utilizzando la cosiddetta remote viewing, cioè chiaroveggenza a distanza. Con questo termine si indica la capacità di descrivere o fornire dettagli di un bersaglio inaccessibile ai sensi normali dovuti per lo più alla distanza, oltre che al tempo. Ci si serve di esso soprattutto quando si parla dell’utilizzo di questa abilità a fini pratici o per esperimenti, preferendolo alla parola precognizione, più adatta per la sua manifestazione spontanea. (3)

Negli anni ‘980 Di Grazia venne a contatto con il Mobius Group, un gruppo di studiosi di differenti discipline diretti da Stephan Schwartz, con l’intento di effettuare indagini archeologiche con l’aiuto di sensitivi. Questi dovevano individuare su una carta geografica aree in cui si sarebbero potuti trovare dei reperti interessanti e descriverli. Numerose sono state le ricerche condotte ed in particolare una, nel 1987, nel Golfo delle Bahamas. Alcuni sensitivi, tra i quali Di Grazia, appunto, dovevano localizzare un brigantino americano affondato nel 1834. L’immersione nel punto indicato confermò le dichiarazioni fatte nella misura dell’84%, mentre il 12% risultarono parzialmente corrette e solo il 4% errate. (4)
Grazie a questa esperienza Di Grazia ideò una ricerca nelle acque dell’isola di Ustica. La prova, organizzata dal periodico Mondo Sommerso, si svolse in ambiente sottomarino e fu filmata da Pippo Cappellano, un giornalista della Rai, per la rubrica “Sereno variabile”.

Il sensitivo era accompagnato da un gruppo di ricercatori, tra cui un archeologo e un geologo. Come nei test americani, Di Grazia aveva individuato su una mappa alcuni punti in cui si sarebbe potuto trovare qualcosa di interessante dal punto di vista archeologico e le sue dichiarazioni, insieme alla mappa, furono depositate presso un notaio. All’inizio della prova, cercando di concentrarsi ebbe la visione di «strane navi di legno che si muovono pigramente spinte da lunghi remi… Rimango affascinato dal loro movimento […] Per un attimo credo di percepire un acuto odore di acqua marina». Quindi vide nuovamente le navi di cui riconobbe la prua a forma di cavallo. Consapevole, però, di essere distratto da particolari a lui noti (sapeva, infatti che tale prua era caratteristica delle imbarcazioni fenicie) cercò di distrarre la mente accendendo la filodiffusione. Poi riprese in mano la mappa e si concentrò osservandola in assoluto silenzio. «Ad un tratto è come se mi svegliassi da un sogno. Guardo ancora la mappa e mi accorgo che ho ridisegnato Ustica. Ma è molto più grande, si estende parecchio a Nord. È come se fossi tornato indietro di vari secoli nella preistoria dell’isola, forse addirittura alle sue origini, chiaramente vulcaniche… (Il geologo confermerà le sue impressioni). Concentro allora l’attenzione sulle prime tracce di vita umana…

Ecco che in due località sento nitidissima la presenza di un antico insediamento umano. Segno il posto e le dimensioni, quindi porto l’attenzione sul mare circostante. Sono colpito da sensazioni chiare e precise, estremamente cariche di fatti emotivi. Vedo delle sepolture sommerse, dei relitti di navi, delle mura squadrate immerse a soli cinque metri di profondità, alcuni frammenti d’anfora». Tutto questo venne poi registrato da un notaio prima di recarsi sull’isola. «I dati depositati dal notaio corrispondono perfettamente, alcuni sono già conosciuti (come un centro urbano, il relitto di una nave antica all’imboccatura del porto) e altri sconosciuti:
un secondo centro urbano primitivo, delle sepolture sommerse, delle mura squadrate, i relitti di due navi». Per verificare tutti i punti, però, occorreva molto tempo, perciò, una volta giunti sul luogo, si predispose un ulteriore esperimento. «Di Grazia dovrebbe indicare, in un tratto di mare confinante con il primo centro urbano che è conosciuto da tempo, quello che si trova nel fondo». Il sensitivo, posto sulla prua dell’imbarcazione ferma nel punto prestabilito, così racconta la prova: «mi auto-convinco di essere un tutt’uno con l’acqua, una cellula dell’universo infinito, il microcosmo nel macrocosmo. E improvvisamente mi si stagliano nitidi nella mente i particolari del fondo marino: alcuni gradini, un tunnel scavato dall’uomo, una strada stretta e delimitata da pareti di rocce concave, un unico e isolato frammento d’anfora, uno strano segno tracciato da una mano umana». Quindi Di Grazia si immerse insieme al gruppo che lo affiancava e la conferma delle sue parole è testimoniata dalle immagini riprese da due operatori muniti di telecamera subacquea e da un fotografo.

Di Grazia non è l’unico sensitivo che ha utilizzato la chiaroveggenza a scopi archeologici. Forse è l’unico italiano che ha fatto numerosi e documentati esperimenti in tale senso.
Nella storia della ricerca psichica si registrano altri casi dell’impiego di capacità psi in questo ambito. Per esempio, il polacco Stephan Ossowiecki (di cui si è parlato poco tempo fa in queste pagine(5)) ha dedicato buona parte della sua vita ad indagare le sue notevoli doti psichiche. Si sottopose perciò a test sia di telepatia sia di chiaroveggenza, ma non mancarono anche prove di psicometria. Prendendo in mano un oggetto, di cui a volte gli stessi sperimentatori non conoscevano l’origine o l’Liso, il sensitivo era in grado di descrivere ambienti e situazioni del passato, anche remoto.
Un giorno del 1935, per esempio, il gruppo di studiosi con cui si riuniva aveva predisposto una nuova esperienza. Nessuno di loro aveva conoscenze in ambito archeologico, tuttavia si decisero ad effettuare delle indagini in tal senso dopo che il sensitivo ebbe descritto ciò che vedeva toccando un pacco preparato Otto anni prima. Come lui le definì, le sue impressioni rappresentavano una “catastrofe cosmica”: «Qui c’è qualcosa che mi trascina verso altri mondi… in un altro pianeta… È un mondo vasto.., che non ha somiglianza con il nostro. Precipita a velocità vertiginosa attraverso lo spazio senza fine. Molto fuoco… si schianta contro un altro corpo… catastrofe cosmica, Si frantuma,.. va in pezzi. Cade in piccoli frammenti. Questi volano.., prendono velocità, cadono su molti punti della Terra. Sono frammenti di un meteorite ». E così erano.

In una prova successiva, invece Witold Balcer, un amico ingegnere, gli aveva consegnato una scatola contenente il piede annerito di una mummia ed ecco ciò che Ossowieckj visualizzò.

«Vedo una scatola fatta di una lamina di metallo. Ha una superficie riflettente. L’interno è marrone, avvolto in carta e cotone. È qualcosa che assomiglia a legno o a pietra. Qualcosa di pietrificato. È un oggetto antichissimo, ebbe origine parecchie migliaia di anni fa. Prima della nascita di Cristo. Fu disseppellito da una spedizione scientifica. Vedo gente con caschi coloniali bianchi, che dirige questo scavo. Intorno c’è sabbia e roccia. Questo è un paese caldo. L’oggetto faceva parte di un oggetto più grosso e serviva, o era collegato, a un culto o a un rito religioso.., matrimonio o funerale. Sì, era collegato ad un funerale. Ma che cos’è in realtà? È una figura.., o un idolo. Non capisco. Vedo fuochi simili a torce, strana gente che s’inchina di fronte a questo, oppure sta pregando, Che cos’è? L’oggetto ha in qualche punto fibre e nodi, come se fosse coperto di strisce di tessuto.

«Adesso riesco a vedere cos’è … è un piede umano pietrificato!»

Pur sapendo che l’oggetto apparteneva ad una mummia ritrovata qualche anno prima in Egitto, Balcer non aveva altre informazioni Predispose, perciò, un altro esperimento per sapere qualcosa di più.

«Sto entrando in questo ignoto mondo lontano. Ah! È trascorso tanto tempo. Ci separano migliaia di anni. Vedo chiaramente questa donna, vedo tutta la sua vita. Ha carnagione olivastra, è giovane e carina. Ha il naso lievemente aquilino, un’espressione gradevole sul viso. E vestita di bianco.., un lungo abito.., trasparente. Ha braccialetti d’oro ai polsi e alle caviglie. Intorno al collo ornamenti d’oro e d’argento. I capelli.., a treccia.., piccole trecce nere sotto un’alta tiara, che termina a forma di quadrato. È figlia di un alto dignitario… come se fosse un principe.., ma non un faraone, Vive in un enorme palazzo di pietra. Il cortile di questo palazzo è ornato di alberi e cespugli. Al centro c’è una vasca di pietra piena d’acqua con una fontana. La principessa ha marito. Riesco a vedere anche lui. È esile.., ha sandali neri, che si direbbero fatti di legno. I suoi abiti sono di tessuto bianco. Non porta sul capo una tiara … ha trecce che gli cadono ai due lati del volto. Per precisare … non sono trecce, ma una gran quantità di trecce più piccole. Sulla fronte una benda morbida, o rigida … d’oro.

«Muore durante il parto … tra grandi sofferenze. È morto anche il bambino. Adesso vedo … stanno portando fuori il suo corpo su una barella. La barella è dorata. La trasportano a una casa sul fiume. E dove avviene l’imbalsamazione. Ah! Questo è interessante. Estraggono l’intestino … estraggono il cervello usando dei lunghi strumenti …attraverso il naso. Frizionano il corpo con oli e lo cospargono continuamente di una polvere. Adesso vedo il funerale. Tante persone. Alcune coperte di vestiti grigio-neri camminano in righe di sei. Saltano di quando in quando. Il marito e il padre non partecipano al funerale non camminano dietro la bara. Rimangono a casa … sono inginocchiati sul pavimento a capo chino, coperti di un sudano.

«Vedo un’apertura nella roccia e un corridoio che si addentra profondamente, Più avanti ci sono gradini, che portano verso il basso. Alla fine del corridoio c’è una stanza di buone dimensioni ricavata nella roccia a colpi di piccone. Qui depongono la bara con il corpo. Vicino collocano svariati oggetti di uso quotidiano … e cibo … su piatti di terracotta. Riso, vino, bacche, resine … qualche altra cosa. Tutto ciò è stato portato dentro sacchi di cuoio.
«Vedo un’urna nera. Vi bruciano dentro qualcosa. Sono le interiora della persona imbalsamata. Bruciano qui sul luogo … vicino a lei. Tutto il gruppo intorno all’urna prega. Padre e marito non sono qui. Sono rimasti a casa. Tutti coloro che sono nella tomba adesso pregano e piangono. Vedo donne che sono state pagate per partecipare al funerale. Piangono. Hanno lunghi veli e abiti neri. Adesso tutti escono in fila, con le braccia incrociate sul petto. Vedo che murano l’ingresso della cella, vedo erigere un altro muro alla fine del passaggio … vicino all’uscita. L’uscita è bloccata con enormi massi e riempita di terra.

«Tutto ciò sta accadendo molto lontano dalla grande piramide e dalla Sfinge … vicino a una montagna su cui vedo scolpiti dei bassorilievi».

Questa descrizione, pur essendo molto realistica e avvincente. tuttavia non fu oggetto di verifiche ulteriori, così come avvenne per altre prove. Tuttavia, una serie di esperimenti svolti nell’arco di diversi anni e allestiti da persona competente in ambito storico etnologico diedero conferma delle capacità chiaroveggenti di Ossowiecki.
Stanislaw Poniatowski professore di etnologia all’università di Varsavia, era da tempo interessato a svolgere esperimenti con un veggente adatto per poter «scoprire se esistono legami e quali. tra le contemporanee società primitive e incivili e le società corrispon­denti nelle più antiche culture preistoriche». Quando conobbe Ossowiecki aveva già ideato una serie di prove da effettuare con un gruppo di lavoro interdisciplinare e valutato tutte le condizioni di controllo per questo suo progetto. Fu così che, a partire daI 1935, per alcuni anni furono svolti poco più di una trentina di esperimenti e i partecipanti ad essi erano personalità di rilievo non solo nella società polacca, ma anche a livello internazionale. Nonostante la guerra e i pericoli ad essa conseguenti, il gruppo si riunì, ottenendo una buona mole di dati.
Al primo incontro Poniatowski porse ad Ossowiecki una mazza di pietra, presa dal Museo Majewski e che era stata identificata come proveniente da un sito d’epoca acheuleana. Da qualche mese era stato scoperto in Inghilterra un cranio fossile analogo ad uno ritrovato due anni prima in Germania, a Steinheim, e che era stato attribuito proprio al periodo acheuleano.

Quando Ossowiecki ebbe in mano la mazza vide «gente stranissima … gente piccola … teste non grosse ed enormi dietro … Capelli arruffati … che ricadono, pendono (ai lati delle guance) .. Tipi molto diversi. Altezza 150-160 centimetri … sono spaventosamente muscolosi nudi … pelle scura … color cioccolato chiaro … così scuri. Le donne sono molto ben sviluppate, grasse … Capelli lunghi che cadono sulle spalle … mento prominente, barbe sottili, occhi neri, marrone scuro. Nasi molto larghi … fianchi solidi, fronte bassa, occhi spalancati.. occhi scuri. Donne molto brutte … non graziose. Le orecchie un pò sporgenti …

La descrizione del cranio corrispondeva alla conoscenza che si aveva di quelle popolazioni, tuttavia non tutto ciò che il sensitivo aveva raccontato poteva essere accertato, come, per esempio, il colore degli occhi o della pelle. Ma ciò che aveva detto del cranio combaciava con quello che gli studiosi sapevano. In seguito Ossowiecki fece numerose descrizioni di altre popolazioni, alcune delle quali poco conosciute , ma soltanto in un secondo momento certe affermazioni furono confermate. Purtroppo tutte le relazioni delle sedute, raccolte da Poniatowski, non sono mai state pubblicate e ciò che rimane non è stato ritenuto sufficientemente provato da chi recentemente se ne è occupato. Tuttavia, avendo a disposizione altri resoconti che documentano le capacità psichiche del polacco, non è irragionevole pensare che il sensitivo abbia dato indicazioni molto vicine al vero anche in questi casi.
Nelle sedute, Ossowiecki non solo descriveva ambienti e persone, ma talvolta anche azioni. Tutto questo non bastava a Poniatowski, che desiderava un controllo incrociato con altri sensitivi. Trovò solo una chiaroveggente, che però lo deluse, in quanto le sue affermazioni erano spesso confuse e lacunose. Un altro intento dell’etnologo polacco era effettuare degli scavi secondo le indicazioni di Ossoweicki, ma a causa della guerra ciò non poté essere perseguito.


SECONDA PARTE

da “Luce e Ombra” Anno 108° N.2, aprile-giugno, 2008 pagg. 171-182

di Cecilia Magnanensi

Chi verificò l’esattezza di ciò che era stato detto da una persona dotata di facoltà psi fu J. Norman Emerson, una figura di primo piano dell’archeologia canadese. Nel marzo 1973 alla riunione annuale degli archeologi canadesi ebbe il coraggio di affermare:
«Ho la certezza di avere ricevuto notizie su manufatti archeologici e su zone archeologiche da una fonte paranormale, da un sensitivo che mi riferisce questi dati senza dare prova di un uso cosciente della ragione … Come antropologo e come archeologo esperto in questi campi, dico che secondo me merita cogliere l’occasione di indagare e di studiare i dati che ci vengono forniti in questo modo. A ciò dovremmo dare precedenza assoluta su tutto il resto». Si può immaginare lo sconcerto dei presenti: una tale affermazione non era mai stata fatta in precedenza e per di più da un’autorità indiscussa come Emerson.. Inoltre dichiarò che, se qualche anno prima avesse sentito quelle identiche parole dette da un collega, non gli avrebbe dato credito. Nonostante ciò, il paranormale in casa sua non era sconosciuto, perché la moglie Ann seguiva un gruppo che si occupava delle premonizioni effettuate dal chiaroveggente americano Edgar Cayce. L’archeologo era completamente disinteressato all’argomento, ma dovette ricredersi quando il sensitivo George McMullen fece una diagnosi esatta delle sue condizioni di salute.

Le ricerche dello studioso erano da sempre indirizzate verso le popolazioni indigene del Canada, perciò, per mettere alla prova McMullen gli sottopose alcuni manufatti indiani. Le informazioni furono precise, nonostante gli oggetti non potessero dare alcuna indicazione sul loro uso. Dopo alcune prove senza alcuno scopo specifico, ritenne opportuno servirsi delle facoltà del sensitivo per migliorare le sue conoscenze delle popolazioni di cui si occupava.
Ciò che più lo interessava erano la ricostruzione e l’interpretazione, e non la scoperta di nuovi siti, cose che né lui né i suoi colleghi erano riusciti a fare. Dopo alcuni esperimenti di psicometria con oggetti di cui conosceva l’uso, Emerson portò McMullen su luoghi di interesse archeologico. Desiderava che il sensitivo visualizzasse l’ambiente al tempo in cui era frequentato dalle antiche popolazioni canadesi. Lo sottopose, perciò, a numerose prove, ma non tralasciò quelle di psicometria. Una di queste, in particolare, gli diede lo spunto per un controllo incrociato. McMullen, tenendo in mano un oggetto lavorato di pietra nera, fornì una storia che aveva dell’incredibile. Questo manufatto era stato fornito da Miller, un collega di Emerson, presente alla riunione annuale degli archeologi del 1973. Di esso conosceva la provenienza e il periodo di lavorazione, ma rimaneva un mistero per lui, perché, pur avendo individuato il materiale di cui era formato, non sapeva che spiegazione darne. Il sensitivo «dichiarò, con una sicurezza possibile soltanto a chi ignora tutti i dati scientifici di un argomento, che la pietra era stata intagliata da un nero, che era arrivato in Canada come schiavo da Port-au-Prince». I due studiosi non lo ritenevano possibile, ma in una successiva seduta, McMullen ampliò il racconto dicendo che «il nero era nato e cresciuto nell’Africa occidentale, dove era stato catturato da negrieri e portato nelle isole dei Caraibi.

Qui lavorò per un bel pò di tempo, prima di essere venduto di nuovo, questa volta agli inglesi. Fu trasportato su una nave inglese.. fino alla Columbia britannica..Fuggì poi dalla nave e trovò una tribù indiana che lo accolse, si sposò nel villaggio di questa tribù, vi passo tutta la vita, vi intagliò l’argillite nera “ (materiale di cui l’oggetto era fatto). Tale rivelazione secondo gli studiosi non era plausibile, perché non si aveva alcuna conoscenza di un evento del genere. Emerson ebbe poi occasione di incontrare altri due sensitivi, a cui diede, per controllo lo stesso oggetto. Entrambi confermarono le parole di McMullen, fornendo ulteriori particolari. Al momento nessuno però poteva verificare che ci fosse stato un africano in quella determinata zona, tuttavia qualche anno dopo un gruppo di ricercatori, che nulla sapeva del lavoro di Emerson, scoprì, analizzando il sangue delle popolazioni locali, che in una zona particolare una tribù dimostrava di avere avuto tra gli antenati un uomo di colore. Era la stessa tribù che aveva accolto al suo interno la persona descritta dai diversi sensitivi.
L’archeologo canadese nel corso degli anni raccolse una gran mole di dati fornitigli dalle dichiarazione dei sensitivi con cui collaborava che confrontò con le conoscenze storiche, etnografiche, geografiche, climatologiche, antropologiche, oltre che, naturalmente archeologiche. Tra gli altri vi erano anche elementi raccolti durante un viaggio in Egitto e in Iran con McMullen, organizzato dal figlio di Edgar Cayce. Il chiaroveggente americano aveva disseminato nelle sue letture molte notizie di notevole interesse archeologico e storico e durante quel viaggio McMullen ne confermò alcune riguardanti le regioni visitate, aggiungendo particolari che successivamente sarebbero stati controllati.

Il materiale storico estratto da queste letture comprende tantissime notizie, molte delle quali ancora da verificare, soprattutto quelle che riguardano una civiltà scomparsa che suscita le fantasie più sfrenate: Atlantide. Ci vorrebbe un libro intero per parlarne (ed in parte è stato già fatto), tuttavia basti dire che sembra che recenti scoperte confermino le parole del sensitivo. L’archeologia ufficiale su questo tema è divisa, perché c’è chi ritiene che Atlantide appartenga al mito e quindi nulla possa provarne l’esistenza, ma alcuni ritrovamenti sembrerebbero dare motivo di riflessione. Alcune delle notizie erano all’interno di letture riguardanti le vite precedenti dei consultanti, altre, invece, parlavano in maniera specifica di questa civiltà. Il seguente è uno dei pochi esempi in cui ci sia una data specifica su di essa.

«Partendo dal tempo come è conteggiato ai giorni nostri, arriviamo a diecimilaseicento anni prima che il Principe della Pace arrivi alla terra promessa, e troviamo una civiltà distrutta internamente dalla corruzione a tal punto che gli elementi si uniscono per portare devastazione in un popolo adultero e testardo.
«Con il secondo e il terzo sconvolgimento ad Atlantide c’erano degli individui che lasciarono queste terre e giunsero in quella terra particolare allora visibile.
«Ma bisogna capire che la superficie era molto diversa da quella che è attualmente, in quanto invece di essere un’area tropicale il clima era più temperato e vario nelle condizioni e nella posizione dell’area stessa.
«Nel seguire questa civiltà su basi storiche può essere più comprensibile prendere in considerazione le attività di un individuo o di un gruppo, o il loro contributo a una simile civiltà. Questo fattore della necessità, quindi, non costituirebbe un fatto storico, ma piuttosto quelle attività di un individuo e dei suoi simili, o quelli che hanno scelto uno di loro come capo.

«Allora, con l’abbandono della civiltà di Atlantide (più specificamente di Poseidia), Iltar, con un gruppo di seguaci che erano stati del casato di Atlan, i seguaci del culto dell’Uno, con una decina di persone, abbandonarono Poseidia e vennero verso Occidente, occupando quella che ora sarebbe una parte di Yucatan. E lì iniziò, con le attività della popolazione che lì abitava, lo sviluppo di una civiltà che crebbe in modo simile a quella che era stata la civiltà di Atlantide. Altri lasciarono la terra più tardi, altri l’avevano lasciata prima. C’erano stati degli sconvolgimenti anche nella terra di Mu, o Lemuria, e anche quegli abitanti dovettero sottostare a un cambiamento, e ci furono infiltrazioni della loro dottrina in varie parti della terra, che era molto più grande fino allo sconvolgimento finale di Atlantide, o le isole che infine andarono distrutte, quando la maggior parte del contorno geografico dell’America Centrale e del Messico fu modificata fino ad assumere le caratteristiche del tempo presente».

Se le visioni di Cayce sono controverse proprio perchè non vi è la certezza, corroborata da prove inconfutabili, dell’esistenza di una civiltà altamente progredita e, a causa del dissennato uso delle sue tecnologie e conoscenze, distrutta da un grande cataclisma, le dichiarazioni fatte da altri sensitivi possono essere piùà facilmente verificate. Naturalmente quando queste riguardano aspetti del pensiero o di certe abitudini di vita o descrizioni di alcuni aspetti fisici delle persone ciò non è possibile.
Alcuni soggetti dotati di facoltà psichiche fin qui citati hanno dato indicazioni che hanno contribuito a colmare lacune, altri hanno fatto compiere delle vere e proprie scoperte. E ciò che accadde a Clarence Wolsey Weiant, un personaggio poliedrico. Esercitava come medico chiropratico a New York ma comincio ben presto ad interessarsi alla parapsicologia, tanto da collaborare con Hereward Carrington in esperimenti di fotografia del pensiero. Prima di queste due discipline, però, aveva cominciato ad appassionarsi di archeologia, ma solo dopo i trent’anni cominciò a studiare seriamente tale argomento. Durante il dottorato ebbe modo di partecipare ad una delle più importanti campagne di scavo a Tres Zapotes, in Messico. Sotto la direzione di Matthew W. Stirling, uno dei più autorevoli archeologi americani specializzati nell’archeologia meso-americana di allora, era il 1943, ebbe modo di effettuare una scoperta di grande importanza. Durante quegli scavi furono trovati tre oggetti davvero interessanti. la cosiddetta Cabeza colossal (Testa colossale), una misteriosa, gigantesca pietra, alta quasi due metri, del diametro di sei metri, del peso di dieci tonnellate, scolpita da un popolo sconosciuto, ricavata da un solo blocco di basalto. «Ancora più importante della testa era una discussa tavoletta di pietra rotta, detta Stele C, perché era la terza stele trovata che portava incisa una data ritenuta da alcuni la più antica mai scoperta nel Nuovo Mondo, corrispondente al 4 novembre 291 a.C.(6)

«Tra i reperti dello scavo c’era anche una statua di sacerdote, l’unica trovata intatta dalla spedizione. Questa piccola figurina, quantunque considerata importante, perché è una delle prove evidenti che Tres Zapotes fu il punto d’incontro di almeno tre culture: l’azteca, la maya e l’olmeca, fu eclissata dagli altri due ritrovamenti». Avrebbe sicuramente fatto più scalpore se si fosse conosciuto il modo in cui era stata realmente trovata.

Così, infatti, Weiant raccontò la sua scoperta: «Dopo aver scavato per alcuni giorni senza alcun risultato nelle immediate vicinanze della Cabeza colossal e avere usato un aratro per rivoltare il terreno tra la testa gigante e un tumulo ad essa vicino, fui avvicinato da Emilio Tegoma, uno dei nostri operai, ritenuta la persona più anziana a Tres Zapotes. Mi assicurò che possedeva il potere di vedere cose a distanza e in profondità. Se lo avessimo ascoltato, ci avrebbe guidato nel posto dove avremmo potuto trovare ciò che cercavamo. Ci portò a quella che nel nostro rapporto è definita zona di sepoltura. Dopo aver scavato venti minuti, fu disseppellita la prima figurina meravigliosa e intatta di un sacerdote Maya». La zona indicata diede il maggior numero di reperti, manufatti e sepolture, della spedizione. L’indicazione di Tegoma non fu segnalata da Weiant nel resoconto di quella campagna di scavi, perché «non mi ero aspettato che mi capitasse una cosa simile, non avevo preparato nessun controllo. In poche parole, potevo soltanto riferire come aneddoto quel che era successo: interessante, stimolante, ma non una vera prova scientifica». Se lo avesse fatto, sarebbe sorto un dibattito che avrebbe messo in secondo piano l’importanza dell’intero lavoro.

In maniera diversa si era comportata un’altra personalità nel suo campo, l’architetto Frederic Bligh Bond, protagonista di un classico caso della ricerca psichica, risalente ai primi del 1900. Pur non avendo seguito corsi regolari di studio né frequentato l’università, era comunque divenuto un’autorità e quando ormai aveva acquisito un certo prestigio fu incaricato di dirigere gli scavi di un’antica abbazia situata a Glastonbury. Ricostruita varie volte e teatro di un buon pezzo di storia d’Inghilterra, rappresentò un punto di riferimento molto importante nella chiesa anglosassone. Delle sue origini non si conosceva molto e non erano numerosi i documenti che la descrivessero, anzi per determinate epoche mancava qualsiasi testimonianza. Nel primo decennio del 1900 c’erano poche rovine e molte leggende sulla sua storia. Era sicuramente un incarico affascinante e Bond ci mise tutto il suo impegno: ottenne diversi successi, che, però, furono anche causa della rovina della sua reputazione e della sua vita.(7)

Probabilmente per contrastare la presenza di un altro direttore degli scavi e volendo ottenere dei risultati, Bond, da tempo interessato al paranormale, tentò con John Allen Bartlett (che nei suoi resoconti chiamò Alleyne), un amico di vecchia data, di mettersi in contatto con entità spirituali, affinché lo aiutassero nel suo intento. Il metodo era quello della scrittura automatica: entrambi si sedevano a un tavolo con alcuni fogli posti davanti a Bartlett. Bond «appoggiava leggermente la mano destra su quella dell’amico, che aveva in mano una matita, e cominciavano a chiacchierare del più e del meno.

«Di tanto in tanto, durante la conversazione, le mani congiunte cominciavano a tracciare segni sulla carta, ma i due uomini non badavano a quel movimento e si concentravano sui loro discorsi». A volte rivolgevano domande ai loro invisibili interlocutori che rivelarono essere alcuni monaci che avevano vissuto nell’abbazia in epoca medievale. In questo modo Bond ricostruì la storia del luogo e, grazie alle indicazioni, effettuò anche scoperte sensazionali. Infatti, i monaci, oltre a descrivere gli edifici del complesso di Glastonbury raccontarono vicende storiche e la vita del convento e disegnarono alcune piantine, utili per la ricostruzione degli edifici.

È a dir poco affascinante la storia di questi scavi, anche se oggi è stata dimenticata. Visitando, infatti, il sito Internet dell’abbazia non vi è alcun riferimento a Bligh Bond e ai suoi amici invisibili. A prescindere da ciò, il lavoro da lui effettuato è stato notevole, anche se di molte cose ha taciuto. E’ ciò che alcuni ritengono, nonostante l’architetto inglese abbia riferito sia in articoli sia in volumi, oltre che nei suoi rapporti a chi gli aveva commissionato la direzione dello scavo, come siano andate le cose.
A noi, qui, non importa se abbia veramente avuto rivelazioni da amici invisibili, ma è indubbio che i suoi ritrovamenti sono stati indotti da una conoscenza ottenuta al di là dei normali sensi umani. Ciò che si sapeva dell’abbazia di Glastonbury era incompleto, Bligh Bond, pur avendo acquisito una certa esperienza nell’architettura medioevale, di cui si era da sempre interessato, non era in grado di aggiungere ulteriori notizie e con la scrittura automatica ebbe modo di ottenerle.
Da ciò che emerge in queste pagine, sembrerebbe che l’applicazione della psi possa essere di aiuto per acquisire nozioni in archeologia, tuttavia si devono fare alcune considerazioni. Prima di tutto è necessario ricordare che il meccanismo della percezione extrasensoriale non è stato ancora spiegato in maniera adeguata. In secondo luogo non vi è mai la certezza che le dichiarazioni ottenute in tal modo siano esatte. Di alcune di esse non sempre, nell’immediato, si scopre la validità, anzi può passare anche un lungo lasso di tempo perché siano confermate, come nell’esempio del manufatto di argillite preso in esame da McMullen. Per altre, invece, non ci possono essere controlli, in quanto di natura soggettiva, come, per esempio, il colore degli occhi, o talmente vaghe da non dare alcun elemento verificabile. Questo non toglie, però, che, come nei casi qui riportati, esse possano essere di notevole aiuto e, per poter affermare con certezza che ciò sia sempre possibile, è necessario possedere una quantità di dati molto numerosa da analizzare.

Quando si è parlato dell’applicazione della chiaroveggenza nell’ambito delle indagini giudiziarie si è riferito il pensiero di Marcello Truzzi, che, pur mantenendo un atteggiamento scettico, riteneva opportuno uno studio serio su questo tema. La stessa cosa potrebbe essere ripetuta per l’archeologia, ma mentre non sono poche le forze dell’ordine che si servono di sensitivi per le loro indagini, si possono “contare con le dita di una mano”, come si dice, gli archeologi che se ne occupano. Molto spesso sono i dilettanti a sfruttare non solo la percezione extrasensoriale ma anche capacità rabdomantiche. In questo scritto non se ne è parlato, in quanto si è preferito privilegiare le facoltà psichiche, tuttavia diversi sono gli esempi di rabdomanti, o radioestesisti, che hanno contribuito a nuove scoperte archeologiche. Primo tra tutti è lo scozzese James Scott Elliott che con i suoi scavi fornì materiale di notevole interesse per la storia della Gran Bretagna.
A prescindere dall’interpretazione e dai risultati che ne scaturiscono, ritengo interessante servirsi anche di mezzi poco ortodossi che possano risultare utili ad ampliare le conoscenze non solo da un punto di vista archeologico, storico o antropologico, ma anche sociale e psicologico. Perché è questo che si ricava dall’osservazione dei fenomeni psi.

NOTE:

(1) Copia di tutta la documentazione è stata donata alla Biblioteca Bozzano De Boni da Di Grazia stesso, ma è visibile anche nel sito da lui creato alla pagina

(2) Nonostante l’atteggiamento del mondo accademico, grazie ad una fitta rete di amicizie e conoscenze, soprattutto negli anni 1970 e 1980 furono pubblicati numerosi articoli su periodici e quotidiani, anche a livello nazionale, nei quali si descrivono “a volte con aggettivi forse un po’ troppo roboanti, le incredibili scoperte archeologiche del sensitivo [* vedi nota integrativa]

[*] ..per la precisione: le scoperte sono comparse anche su riviste europee ed extraeuropee (Esotera-Germania, La gazzetta italiana – rivista in inglese per gli italiani all’estero, poi su Seaview e National Enquirer, Usa.. ed altre) e così su libri del settore, sia italiani che stranieri.. di cui però non ne abbiamo fatto diffusione..!

Lo stesso vale per il rapporto con le Soprintendenze che hanno portato a lettere di ringraziamento, sopralluoghi e scavi, vedi qui all’interno del nostro sito.

(3) Per approfondire vedi: C. Magnanensi. “Le remote viewing o chiaroveggenza a distanza”, Luce ed Ombra 4/2005, pagg. 353-370. per un ulteriore utilizzo della chiaroveggenza vedi anche C.Magnanensi: “Può la sensitività essere di aiuto nelle indagini giudiziarie? , Luce e ombra 2/2007, pagg. 147-162.

(4) S.A. Schwartz, R.J. De Mattei: “The discovery of an American Bring: fieldwork involving applied remote viewing including a comparison with electronic remote sensing” (la versione italiana si trova qui all’interno del sito di Umberto Di Grazia )

(5) C. Magnanensi.: “Un mondo in un granello di sabbia. La chiaroveggenza di Stephan Ossowiecki”, Luce ed ombra 4/2006, pagg 379-390

(6) oggi, però si ritiene sia databile al 31 a.C.

(7) Non è possibile parlare ampiamente qui di questo caso così avvincente, perciò rimando alla lettura di un articolo di Bozzano e degli scritti dello stesso Bond per un approfondimento.
E. Bozzano: “Archeologia supernormale”, Luce e Ombra 1926, pagg. 529-537, 1927 pagg. 6-15. L’articolo è stato riproposto in Luce e Ombra 1998, pagg. 157-179.

Fonte – Istituto di Ricerca della Coscienza, 22 Agosto 2010

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